Alle radici dello yoga, l’induismo.

maggio 27, 2020



di Enrico Casagrande



Prefazione di Marco Sebastiani

E' certamente molto difficile parlare di induismo in un breve articolo, poiché risulta impossibile ridurre una tale complessità in semplici schematismi. Tuttavia possiamo fare un tentativo, tenendo a mente che qualsiasi categorizzazione tenteremo sarà parziale, arbitraria e artificiale. Ci stiamo occupando di un insieme di tradizioni che affondano le proprie origini in decine di migliaia di anni e che non si sono mai considerate un'entità unica o omogenea. Shivaismo, visnuismo, shaktismo, scuola smarta, movimenti riformatori e i moltissime altri orientamenti, diffusi all'interno del subcontinente indiano, che basano le proprie credenze intorno ai Veda, hanno più differenze che non punti di contatto. In modo analogo a come noi parliamo di "induismo", mi è capitato di ascoltare Indiani che parlavano di "religioni abramitiche", ovvero ebraismo, cattolicesimo, protestantesimo, chiesa ortodossa, islam, etc., in termini analoghi, ovvero facendone un tutto unico. Possiedono però, forse, più elementi in comune le religioni abramitiche di quanto non abbiano quelle raggruppate sotto l'etichetta di "induismo".

I popoli indiani iniziarono a sentire una comune identità religiosa e culturale sotto l'orrenda dominazione britannica e, soprattutto, nel momento storico finale di questo barbaro impero. Ovvero quando la nazione indiana fu smembrata in due parti, seguendo le linee dei pozzi petroliferi della British Petroleum, generando l'artefatto stato del Pakistan, producendo il maggior numero di profughi nella storia dell'umanità e un numero incalcolabile di morti. Nonostante il dominio inglese abbia compattato i popoli d'India, risvegliato una certa coscienza nazionale e un'identità religiosa, asserire che l'imperialismo britannico abbia fatto cose buone in India sarebbe come affermare che il Nazismo le abbia fatte in Europa.


Oggi l'induismo è considerato una religione mondiale. Dopo cristiani e musulmani, gli indù formano il terzo gruppo religioso più grande nel mondo.
Si trovano in tutti gli angoli del globo, ma la lunga storia dell'induismo che si estende su tre millenni, rimane in gran parte associata con la terra di origine, l'India. Un'altra caratteristica notevole dell'induismo tra le principali religioni del mondo è che la sua fondazione non è associata a una singola figura storica. Il suo inizio è invece ricondotto ai canti di un certo numero di saggi dell'antica India che hanno elevato inni a vari poteri divini di un unico spirito universale, nel secondo millennio prima di Cristo.
Tale molteplicità di voci e anche di pratiche segna tutte le fasi principali dello sviluppo della tradizione indù e della sua immensa diversità interna.
Inoltre, come nella tradizione buddista, i testi sacri nella tradizione indù sono un gran numero. Il numero è cresciuto nel tempo e nello spazio.
Con il gran numero e la diversità delle voci, i testi sacri indù ci sfidano a ripensare alla natura delle scritture, la loro autorità e a come influenzano la vita delle persone. Molti potrebbero chiedersi, perché preoccuparsi di questi problemi? Perché studiare religioni e sacre scritture? Perché le religioni sono una grande chiave interpretativa della nostra realtà e l'induismo è una meravigliosa pietra fondante dello yoga.
Come sottolinea il sociologo Peter Berger, l'assunto che le religioni e la ricerca spirituale avrebbero perso la loro forza con l'avanzata della modernità, si è rivelato sbagliato. In India come altrove le persone continuano a cercare conforto nella preghiera, nello yoga, e la religione continua a influenzare profondamente le scelte morali, nonché il senso di appartenenza e identità.

Lo studio delle Scritture è forse il modo migliore per chi volesse approcciarsi al mondo induista. Come menzionato prima tuttavia, gli indù sono lungi dall'essere un gruppo omogeneo. In India e in altre parti del mondo, gli indù praticano la loro religione in modi sorprendentemente diversi.
Il loro pensiero e le loro pratiche sono stati modellati dalle scuole locali e dalle culture regionali. Sono stati anche influenzati dagli incontri con popoli che seguono altre religioni e a loro volta, hanno influenzato le pratiche locali di altre religioni in un processo molto vivido anche in questi nostri giorni. Le scritture indù sono rimaste al centro di questi scambi dinamici. Questi testi hanno plasmato l'universo spirituale e morale non solo dei seguaci del dharma, ma alcuni tra essi, come ad esempio la Bhagavad Gita, hanno anche profondamente influenzato la vita di molti uomini e donne non indù. La Bhagavad Gita, come sappiamo, ha per argomento lo yoga, ed è molto interessante osservare il dialogo tra lo yoga, il mondo induista e il mondo non induista ai nostri giorni, come fa Enrico Casagrande nel suo articolo.

Un versetto della Bhagavad Gita, (BG4.38) recita:

न हि ज्ञानेन सदृशं पवित्रमिह विद्यते ।
तत्स्वयं योगसंसिद्धः कालेनात्मनि विन्दति ॥ ३८ ॥

na hi jñānena sadṛśaṁ pavitram iha vidyate
tat svayaṁ yoga-saṁsiddhaḥ kālenātmani vindati

In questo mondo non vi è nulla di così sacro come la conoscenza.
Colui il quale pratica yoga da lungo tempo, realizza che la conoscenza risiede nel suo stesso spirito.


La parola ad Enrico Casagrande.


Introduzione

Definire lo yoga senza il riferimento all’induismo è un’operazione semplicemente approssimativa ed è di conseguenza il primo momento di un itinerario che si ponga come obiettivo una comprensione accettabilmente conclusa dello yoga stesso. Si vedrà che il comprendere, il concludere, il padroneggiare in modo definitivo il tema yoga è una linea di tendenza non un obiettivo compiutamente raggiungibile per il fatto che la scienza dell’unione è indistricabilmente legata ad un pensiero spirituale – religioso che non si piega in modo definitivo alle attese di categorizzazione della ricerca.

Il termine induismo

L’India conta, da censimento del 2020, poco meno di 1 miliardo e 400 mila abitanti. Dopo la Cina è il paese più popoloso della terra. Un censimento del 2011 calcola che l’80 percento della popolazione si definisce induista, seguono poi un 15 percento di fedeli musulmani ed il rimanente sono cristiani, buddhisti, sikh, jainisti, ebrei e parsi. L’induismo è la prima religione pure nel Nepal ed oltre ad essere la fede che per antonomasia definisce l’India è diffusamente praticato con differenti percentuali nel resto del mondo. Non si definiscono induisti quell’ampia parte di occidentali che adottano stili di vita e credenze di origine indiana quali il seguire una dieta vegetariana per ragioni spirituali, il credere nella reincarnazione, nella legge del karma ed il praticare lo yoga.
Hindu è una parola che appare storicamente nella cultura persiana per indicare le genti stanziate oltre il fiume Indo. A partire dal XVIII secolo, gli inglesi cominciarono a chiamare Hindu gli indiani non appartenenti alla religione musulmana, sikh, jaina o cristiana. Verso la metà del XIX secolo il termine induismo è riferito a quell’insieme di pratiche religiose testimoniate dall’attività dei brahmani, la casta più alta nella gerarchia sociale indiana. Qui appare già una difficoltà nella definizione del termine induismo dato che le popolazioni autoctone precoloniali non coniano espressioni o parole diffusamente accettate per racchiudere ciò che più di una religione è un vasto assommarsi di credenze, pratiche, saperi scientifici e spirituali non sempre perfettamente allineati tra loro. Nel vasto subcontinente indiano, un percorso culturale durato millenni e composto dallo stratificarsi ed interagire di differenti popoli non ha di fatto posto l’interrogarsi di quello stesso mondo circa una propria identità religiosa se non quando, per reazione al più recente processo di colonizzazione lo spirito nazionalista indiano emerse e trovò dei criteri per autorappresentarsi (G. Flood, L’induismo, 4, ed. Einaudi, 2006, Torino).

Il Sanatana dharma

Quando il nazionalismo indiano del XIX secolo indica come induismo tutto ciò che viene incluso in una visione di spirito e natura che si traduce in un sottoinsieme di pratiche rituali atte a interagire, gestire e contenere quella visione che rientra sotto il termine di Sanatana dharma. Sanatana viene tradotto con la parola eterno e dharma indica un dovere espresso a partire da un’etica che diviene legge, quindi sanatana dharma assume il significato di “Legge eterna”. Questa è indicata dalle scritture, i Veda (la saggezza), rivelate ai veggenti, i rishi, e permettono all’individuo di esprimersi oltre la propria condizione ordinaria per attingere al supremo Brahman. I Veda sono il corpus più antico della letteratura indoeuropea che viene trasmessa, come scrive l’indologo Mario Piantelli, nei millenni per via orale con raffinati espedienti mnemonici (M. Piantelli, Hinduismo, a cura di G. Filoramo, ed. Laterza, 2007, Roma). Composti a partire dal 1500 a.C., i Veda sono trascritti nel tempo e sistematizzati nei Rgveda, la raccolta degli inni, nei Samaveda, la raccolta dei sacrifici, negli Yajurveda, le formule del culto e negli Atharvaveda, le formule magiche e della medicina. Essendo stati ispirati dal divino e non scritti originariamente dall’uomo che li ha solo uditi i Veda sono il corpus della Shruti, i saperi ascoltati e si differenziano dalle scritture ricordate o Smrti, composti cioè dagli esseri umani, anch’essi sacri ma ad un livello inferiore rispetto ai primi. Tra le opere Smriti (es. Mahabarata, Ramayana e Dharmasastra) il poema epico Mahabharata, composto tra il IV secolo a.C e il IV secolo d.C., che con i suoi 106 mila versi è l’opera letteraria più voluminosa dell’umanità (H. Kulke, Storia dell’India, 62, ed. Odoya, 2019, Perugia). È pertinente qui osservare che la parola, vac, è a fondamento del Sanatana dharma prima della scrittura e prima di ogni azione rituale che ne traduce sul piano “grossolano” dell’esistenza la sua natura. Con un balzo cronologico fino ai giorni nostri questa considerazione fa comprendere l’enfasi posta dal mondo yoga sui mantra, letteralmente “strumento del pensiero”, che vengono salmodiati nelle pratiche meditative. I Veda sono allora da porsi a fondamento del pensiero del Sanatana dharma, ad essi sono correlati i Brahmana o affermazioni sul Brahman, i commentari ai quattro veda e le Upanisad, traducibili come “ai piedi del maestro”, opere ancora di commento ma anche di interpretazione in chiave operativa dei saperi dei Veda. Questi esprimono il dharma che si è visto riferirsi al pensiero sulla verità e la sua pratica, un concetto più ampio di quello riferito a religione da re – ligare che nella tesi lattanziana indica il legame con il dio (1). Inoltre, va tenuto in considerazione il fatto che l’azione rituale, compresa nel termine dharma, è la dimensione pubblica che ordina la società ed essa è sì distinta ma non facilmente districabile dalle pratiche soteriologiche individuali che mirano alla liberazione dal ciclo delle nascite o moksa (G. Flood, 15, ed. Einaudi, 2006, Torino). Lo yoga è direttamente riferito a quest’ultima e una sua pratica consapevole implicherebbe una corretta informazione sulle sue autentiche radici.

Un monoteismo atipico

Le divinità del pantheon induista sono generalmente indicate nella trimurti, la triplice forma, composta da Brahma, colui che crea, Visnu, colui che mantiene e Siva, colui che distrugge. Il concetto di trimurti, manifestando una continuità nella triplice manifestazione divina, inerisce ad un essere divino in realtà unico che rende impreciso attribuire la caratteristica di essere politeista alla religione hindu. La trimurti agisce attraverso le proprie manifestazioni eroiche o avatara primi tra tutti Krishna e Rama e l’essenza monoteista torna a moltiplicarsi. Risolvere la dialettica è un problema essenzialmente occidentale che non interessa la mente dell’hindu che tradizionalmente non manifesta una particolare vocazione verso la storia. Le divinità sono allora espressione o avatar del Brahman che al neutro indica l’ente creatore e impersonale oggetto del vedismo primigenio. La molteplice espressione del divino diventa a questo punto una questione squisitamente storico – sociologica. La vastità del subcontinente e la sua esperienza di integrazioni, sovrapposizioni e identificazioni danno spazio alla formazione di molteplici scuole di pensiero che oggi rientrano nel dharma – hindu. Sivaismo, Vaisnavismo e Saktismo sono rispettivamente le tradizioni di Siva, di Vishnu e di Sakti. Sono poi presenti numerose tradizioni “minori” dal punto di vista del numero degli adepti, tra le quali i Saura devoti al Sole Surya o i Ganapatya fedeli al dio Ganesh. Ogni scuola trova il proprio comun denominatore nella fede verso la realtà del Brahman, nel vedismo e nella tradizione smrti che ne dipende. Si aggiungono poi le norme etiche e religiose che definiscono le regole di condotta nella società indiana, la fede nel samsara, la metempsicosi correlata all’azione del karman, il principio individuale chiamato atman, jiva o purusa che può liberarsi dal samsara atttraverso la moksa differentemente prescritta a seconda della scuola seguita (G. Filoramo, a cura di, Hinduismo, p.14, 2007).
 Il tema del culto si sovrappone con quello dello yoga dato che, ad esempio, il culto di Siva o sivaismo trova una propria espressione nelle pratiche psicocorporee degli yogin. Modalità dello yoga sono presenti pure all’interno del culto di Visnu o vaisnavismo che predilige tecniche emozionali basate sulla devozione o bhakti. Il legame induismo – yoga si fonda pertanto a partire da un comune sentire di natura non solamente spirituale ma anche teologico.

Il rito, i sacerdoti e lo yoga

Il rito è quindi l’elemento che sorregge il dharma e ne permette il suo concretarsi al punto tale che riesce difficoltoso comprendere con i criteri della religione l’induismo se si pensa che la dimensione del fare supera quella della fede. Un hindu nasce in un contesto dove ogni aspetto della vita è definito in un suo rapporto con la dimensione metafisica. Indipendentemente dalla divinità alla quale rivolge la propria devozione, sono le prescrizioni del dharma che regolano la quotidianità dell’individuo a partire dagli aspetti più strettamente pratici. La classe dei sacerdoti o Brahmani, così nati sull’evoluzione di un sistema sociale che regola pure l’appartenenza ad una definita casta, celebra i rituali pubblici. La vita privata tradizionale possiede le proprie norme di comportamento che sono divise per classe, età, sesso e specifiche diramazioni per le quali si manifesta l’induismo. Se, ad esempio, il culto pubblico è competenza dei brahmani, vi sono sacrifici e cerimonie che gli stessi opereranno nella sola sfera privata. Alla religiosità sociale afferiscono gli Ksatrya, i guerrieri, e i Vaisya, i commercianti. Differente è in questo senso la condizione dei Shudra, i servi, che alla divinità non fanno sacrifici e differente è ancora la condizione dei Dalit, gli intoccabili, che tradizionalmente non accedono ai templi. Nonostante il governo della Repubblica dell’India, nato nel ‘47 dopo aver ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito, proibisca sin dal ’50 il sistema delle caste, la sua millenaria esistenza influenza tutt’oggi l’agire politico e sociale della nazione (2). Lo yoga, rispetto al sistema tradizionale delle caste, si pone come una novità nel panorama culturale hindu nel senso che il cammino dell’evoluzione del sé personale verso quello sovraindividuale è tecnicamente aperto a chiunque e si fonda sulla ricerca di uno stile di vita che non può essere influenzato dalle cure della vita mondana. Ciò implica che il cammino verso la salvezza è sinonimo di rinuncia: una rinuncia riferita ad ogni obbligo sociale compreso quello di casta. La non distinzione tra il divino e la natura realizzata nello stato di unione è così sintetizzata dal dio Krishna nella Bhagavad Gita:

“chiunque realizzi che la Mia Essenza pervade ogni cosa non sarà mai separato da Me. Sebbene quello yogi sembri essere il corpo e per il mondo possa sembrare a volte felice e a volte infelice, egli è in realtà l’Eterno” (BG 6.29)

La discriminazione sociale, nella prospettiva dello yoga, è di fatto censurata a partire dalle scritture. Ciò non toglie che, come dimostrato a proposito del legame tra la teologia induista e lo yoga abbia comuni radici nell’ambito del culto. La contraddizione non disturba l’analisi dell’induismo quando è possibile mettere tra parentesi rigide categorizzazioni.

Conclusioni

 La legge eterna, il Sanatana Dharma, parte da rivelazioni metafisiche per evolvere verso gli aspetti della vita del fedele il quale prima ancora di essere indicato come tale è soprattutto un celebrante di innumerevoli ritualità che ne informano la sua identità hindu. L’antichità dei testi Veda, il principio della trasmigrazione dell’atman individuale da una vita ad un’altra fino alla conclusione di tale itinerario o samsara raggiunto attraverso la cancellazione degli effetti delle azioni o karma per giungere alla liberazione o moksa è il sostrato comune a qualsiasi espressione della spiritualità politeista e monista al contempo del sistema hindu. Lo yoga nasce e si sviluppa all’interno di tale sistema e nelle sue altrettanto variegate forme utilizza la medesima grammatica che sostiene le credenze di uno yogin indiano. Il fenomeno transculturale dello yoga è sovente considerato una salutare pratica psicofisiologica e, in tale prospettiva, è interpretabile come un processo di acculturazione che favorisce lo scambio tra società del mondo. Differente si pone la questione quando lo yoga diviene una forma di appropriazione culturale dove termini antichi ed espressi in una lingua sacralizzata dalla tradizione, il sanscrito, entrano nel quotidiano del praticante e vengono talvolta piegati a personali interpretazioni. L’effetto può essere di minimo rilievo come divenire un’irrispettosa appropriazione fino ad evolvere in elementi fondanti sistemi di credenze se non veri e propri prodromi per terapie pseudoscientifiche dagli esiti potenzialmente dannosi. Padroneggiare un lessico dello yoga aperto alla ricerca critica è un rimedio a tale condizione.


(1) Per un approfondimento etimologico della parola religione si è optato per uno dei riferimenti presenti su www.etimoitaliano.it consultato in aprile del 2020. 

(2) Nonostante sia menzionata fin dal Rgveda, non è a tutt’oggi chiara l’origine storica del sistema delle caste. È possibile che la vastità del subcontinente indiano parallelamente ai secoli di conquiste che lo hanno visto protagonista abbiano creato le condizioni affinché i differenti popoli abbiano adottato sistemi endogamici per preservare la loro tradizione e gruppo etnico creando in tal modo sistemi sociali sempre più chiusi in sé stessi fino alla creazione delle caste.

Riferimenti

G. Flood, L’induismo, temi, tradizioni, prospettive, ed. Einaudi, 2006, Torino
G. Filoramo, a cura di, Hinduismo, ed. Laterza, 2007, Roma
H. Kulke, Storia dell’India, 62, ed. Odoya, 2019, Perugia
S. Peterlini, Bhagavad Gita, ed. Il Punto d’incontro, Vicenza, 2014



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