Lo yoga online era visto con grande diffidenza, durante gli anni passati, dalla maggioranza dei maestri e degli studenti. Le nuove abitudini di vita e i nuovi comportamenti a cui tutti ci siamo dovuti adattare a causa della pandemia in corso hanno cambiato profondamente le carte in tavola. Questo è sicuramente il tempo della pratica individuale, ma molte persone stanno traendo beneficio dal seguire lezioni online. Ci sono quindi una serie di espedienti tecnici e tecnologici per migliorare l'esperienza sia per gli insegnanti che per gli allievi. Fatevi un esame di coscienza, troppo spesso si partecipa infatti a lezioni nelle quali l'insegnante si vede male, gli allievi sono avvolti dal mistero, l'audio è disturbato e la connessione instabile. Sappiamo bene che qualsiasi problema si verifica durante la lezione degrada profondamente la qualità della stessa, richiamandoci alla realtà del momento, innervosendoci non poco e rovinando in sostanza l'esperienza. Non aggiungiamo frustrazione (essere online e non in presenza) a frustrazione (avere un'esperienza online scarsissima), cerchiamo di migliorare la situazione con un po' di tecnologia!
Il mantra di chiusura dell'ashtanga yoga, Mangala Mantra, in dettaglio
#ashtangayoga dicembre 11, 2020di Marco Sebastiani
[ potrebbe anche interessarti: Il mantra di apertura dell'ashtanga yoga, in dettaglio. ]
Il mantra con il quale abitualmente viene chiusa la pratica dell'Ashtanga Vinyasa Yoga è in realtà un mantra molto famoso e conosciuto in India. La sua bellezza ha colpito nei secoli le genti dall'Oriente all'Occidente. La sua origine non è però tra gli inni del RigVeda, come innumerevoli volte viene affermato.
Yogapedia: "The Mangala mantra is a prayer for peace found in the ancient scriptures the Rig Veda".
Elephant Journal:"The Mangala mantra is from the Rig Veda and is traditionally chanted at the end of ceremonies".
E' sufficiente fare una ricerca per capire la vastità del fraintendimento: innumerevoli fonti citano il RigVeda come origine, ma ovviamente senza riportare esattamente l'inno da cui sarebbe tratto, d'altronde è impossibile, infatti, semplicemente, non c'è. Il sospetto fondato viene anche dallo stile e dalla lingua, si tratta di sanscrito classico, seppure con diversi arcaismi, non di sanscrito vedico.
D'altronde, afferma Christopher Minkowski, nei testi vedici non vi è alcuna menzione di rituali di buon auspicio, o inizio o ora di buon auspicio di un rituale, piuttosto il mangala come pratiche di buon auspicio emerse probabilmente nelle tradizioni indiane durante l'era medievale (dopo la metà del I millennio d.C. ), da allora in poi lo troviamo nell'induismo, buddismo e giainismo. [confronta: Christopher Minkowski, Abhandlungen für die Kunde des Morgenlandes (2008)]
Altra attribuzione ricorrente è alla Katha Upanishad, dell' 800 a.C. circa, la bellissima storia di Nachiketa che incontra Yama, il deva della morte, testo molto importante anche per lo yoga, citato come percorso per la conoscenza del sé, ma il nostro mantra, ad una accurata ricerca, non compare in nessuna forma neanche qui.
di Kenan Digrazia
«Non c'è nulla di più sublime della Gāyatrī» affermano le autorevoli ed antiche leggi di Manu (II, 83), śāstra, trattato hindu di diritto, che raccoglie le regole del vivere umano secondo il dharma. In effetti, se volessimo sintetizzare l'intera costellazione spirituale induista in un solo mantra, sicuramente nessun altro farebbe più al caso nostro della Gāyatrī, che sgorga ogni giorno, mattina e sera senza sosta, dalle labbra di innumerevoli folle di fedeli, di yogin e di asceti sparsi in tutto il mondo, sin da epoche remotissime.
Cominciamo dal nome. Con gāyatrī, iniziale minuscola, devanāgarī गायत्री, s'intende un sostantivo femminile sanscrito che indica un antico metro poetico composto da ventiquattro sillabe disposte secondo una terzina di otto sillabe ciascuna. Con tale metro furono composti numerosi inni vedici, in particolare la stanza del Ṛg Veda [RV] III, 62, 10, con autore il venerato il Mahaṛṣi Viśvāmitra, che sin dalla sua stesura assunse una grande importanza nell'ambito dell'antica religione vedica, prima fase storica della tradizione hindu. Questo mantra è quindi appellato con Gāyatrī,iniziale maiuscola, o anche con il nome di Sāvitrī, in quanto dedicato a Savitṛ, che vedremo non essere proprio esattamente il Sole, come invece spesso si trova scritto. Prima di coglierne l'importanza, dobbiamo specificare che un mantra non è una formula magica e neppure una frase puramente logica: esso collega, in modo particolare, attraverso l'unione delle facoltà intellettive e relative alla volontà e all'enunciazione dell'individuo, la spiritualità del singolo e la realtà presa nel suo insieme. Mantra deriva dal sanscrito man-, “pensare”, da cui manas, mente e, infatti, si tratta di un enunciato volontario e coincidente con l'azione (J. L. Austin), nel quale dalla mente scaturisce la parola, seguita dal respiro vitale: una riproposizione della struttura dell'Essere al livello “interiore”. In esso scorgiamo la sublimazione del desiderio di trascendere il tempo per mezzo della “ricapitolazione” dello stesso [vedi M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno].
Il termine chakra, devanagari चक्र, compare in testi sanscriti significativamente antichi, anche in relazione con lo yoga, ma è nel medioevo indiano, con le opere tantriche, che si attesta con un significato più vicino, o almeno comparabile, a ciò che oggi spesso intendiamo. Ma cosa intendiamo oggigiorno per chakra? Appare chiaro che il signficato antico, che possiamo cercare di ricostruire fin dal RigVeda, non è di facile attestazione e, di contro, all'estremo opposto, nei tempi moderni abbiamo assistito ad un vero e proprio delirio sorto in ambiente Occidentale ed allontanatosi da qualsiasi originale forma indiana, induista o buddista. Questo processo ha come base l'opera di Jung, La psicologia del kundalini yoga, in cui l'autore fornisce una interpretazione del processo di risveglio della Kundalini basandosi esclusivamente sull'attenzione che egli pose agli indizi del movimento di questa energia nella vita psichica dei propri pazienti e che gli fornirono dei segni più o meno coerenti dell’emergere di una dimensione impersonale, definita come Inconscio Collettivo. Ma se questa sua teoria è assolutamente coerente nel proprio sistema di riferimento, è con gli autori junghiani e con la newage che perde qualsiasi congruenza diventando folklore spiritualistico. Ed ecco quindi che i chakra sono raffigurati con i colori dell'arcobaleno, collegati a pianeti, disturbi, ghiandole endocrine, semi dei tarocchi, note musicali, giorni della settimana, punti e meridiani della medicina tradizionale cinese, arcangeli cristiani, pietre preziose, ma qui forse si tratta di marketing più che di spiritualismo, solo per citare alcuni dei riferimenti più comuni e noti che tutti noi abbiamo sentito almeno una volta.
di Marco Sebastiani
Kapotasana ha questo nome perchè mima la postura del piccione, come in diverse posizioni che portano il nome di animali, tra le quali ad esempio krounchasana, la posizione dell'airone oppure salabhasana, la posizione della locusta? Come spesso accade la risposta è più complessa della domanda. Kapotasana rientra in realtà tra le posizioni dedicate alle divinità. Kapota è uno dei cento nomi di Shiva, o dei mille, a secondo dell'elenco che si consulta, ma è proprio il nome che ricevette quando assunse la forma di un piccione. Anche altri personaggi della mitologia Induista portano il medesimo nome, ma andiamo con ordine.
Nello Skanda Purana è narrato come il Signore Shiva abbia ricevuto il nome di Kapota. Shiva è il signore della meditazione, dello yoga e delle pratiche ascetiche, e una volta intraprese delle tapah, pratiche intense, particolarmente impegnative, vivendo senza bere e mangiare, ma solo di aria ed evitando tutte le coppie di opposti ovvero cercando di raggiungere il completo distacco dal dolore e dal piacere, dal bene e dal male. Questa pratica lo mutò nella forma di un piccione e, da quel momento in poi, a commemorazione di questa profonda pratica, sarebbe stato conosciuto dai suoi devoti anche con il nome di Kapota.
di Marco Sebastiani
Un samskara, devanagari संस्कार , è un modo automatico e condizionato di pensare e rispondere agli eventi della vita intorno a noi. In accordo con Eknath Easwaran in "Essence of the Upanishad: a key to Indian Spirituality" appare chiaro nei commentari dei Veda che quando un samskara è forte, pensiamo ad esso come ad una parte immutevole della personalità: la gelosia di Otello, l'indecisione di Amleto, l'ambizione di Macbeth; questa diremo essere "la loro natura". Queste impronte derivano dalla ripetizione dei medesimi modelli da quando siamo giovani, ma anche dalle vite precedenti. Secondo varie scuole di filosofia indiana, tra le quali Samkya, i samskara sono le sottili impressioni mentali lasciate da tutti i pensieri, le intenzioni e le azioni che un individuo abbia mai sperimentato. Spesso paragonati a solchi nella mente, nei quali trovano accoglienza i semi delle azioni che generano i frutti del karma, possono essere considerati come impronte psicologiche o emotive che contribuiscono alla formazione di modelli comportamentali. I samskara sono al di sotto del livello di coscienza normale e si dice che siano la radice di tutti gli impulsi, i tratti caratteriali e le disposizioni innate.
di Kenan Digrazia
Forse il più grande regalo che la civiltà indiana può fare all'Occidente è costituito dalla comprensione della piena integrazione armonica di tutti i cicli della Natura in un unico grande ritmo universale, dottrina che svetta tra tutte le culture per profondità e ricchezza della riflessione sviluppata. Infatti, sebbene anche in molte altre civiltà antiche si fossero originate delle intuizioni simili, queste erano sempre rimaste circoscritte agli ambiti sacerdotali, astronomici o strettamente mitologici; in India, invece, il “ciclo cosmico” è dottrina metafisica, rituale, puranica (e quindi anche attinente alla sfera del “mito”) e, sopratutto, salvifica, cioè latrice di un messaggio di liberazione dell'uomo “dalla schiavitù dell'esistenza terrena”, tanto da permeare interamente non solo i sei cammini dell'Induismo, i darśana, ma anche la cultura, i riti e persino i modi di fare della popolazione fino al giorno d'oggi.
Proseguendo il filone del nostro precedente articolo sulla cosmologia, possiamo affermare che anche in questo interessante ambito di ricerca vi siano dei rimarchevoli punti di contatto con i modelli matematici della moderna astrofisica teorica, di cui daremo un sunto. Ma andiamo con ordine.
La prima traccia di una profonda intuizione dell'interconnessione dei ritmi della Natura si rintraccia ovviamente nel Ṛg Veda, in particolare nella fase arcaica dello sviluppo della lingua sanscrita. Due vocaboli etimologicamente correlati tra loro ce lo dimostrano: ṛta e ṛtu. La radice è ṛ-, “mettere in moto”, “muovere verso” o anche ar-, “accomodare”, “sistemare (i raggi della ruota)”; cosicché ṛta sarebbe ciò che viene ben sistemato, la norma stabilita secondo una connotazione dinamica. Da tale parole deriva il vocabolo ṛju, “onesto”, “retto”, “che si muove bene (sincero)”, quindi il latino rectus, quindi i termini italiani retto, rettitudine, diritto, ecc...
Ṛta viene sovente tradotto come “Ordine Cosmico”, il che è corretto a patto di comprendere che cosa i Veda e la Tradizione indica intendano per Ordine Cosmico: è l'insieme delle leggi che mantengono la realtà in un equilibrio dinamico di scambi, la cui manifestazione più sublime è proprio il Sacrificio. Il ṛta è ciò che determina il Sacrificio e da esso trae la propria sussistenza: si ripete spesso che il ṛta è sostenuto dal ṛta (cfr. RV I, 23, 5 e RV V, 68, 4). Bisogna inquadrare il tutto nella visione indiana della creazione come sacrificio: Prajāpati, l'antico Signore degli esseri, s'immola per le sue creature, di conseguenza, ogni cosa nell'universo agirà con il medesimo spirito di sacrificio per mantenere la struttura della realtà vera e stabile. Il ṛta è il fondamento ultimo di ogni cosa, né creato, né increato. Ṛtu, invece, dal quale deriverebbero probabilmente i vocaboli “rito” e “ritmo”, indica inizialmente i tempi stabiliti per i sacrifici, quindi, proprio in conseguenza della suddetta visione cosmica del Sacrificio, passa ad indicare le ere ed i momenti solenni in cui si ha una reiterazione dell'atto primordiale creativo. Non una fuga dal tempo, ma una ricerca dell'immortalità nel tempo, come anche ha fatto notare il grande studioso Mircea Eliade. Ṛta e ṛtu si possono quindi paragonare rispettivamente all'ordine costruttivo di una ruota coi suoi raggi, il suo cerchione, ecc … e alla frequenza di rotazione della stessa.
I tempi stabiliti (cfr. il greco καιρόι) nello sviluppo dell'Universo e nella manifestazione cosmica non sono altro che frutto dell'Ordine dinamico, intrinseco nella realtà, che si manifesta in forme diverse a seconda delle condizioni speciali di esistenza che andiamo a considerare (uomini, bestie, deva, ecc...), ma che nella sostanza è un invariante. Ad esempio, si consideri l'archetipo dell'alternarsi del giorno e della notte. A livello planetario è proprio il ritmo del buio e della luce. Al livello della pratica yoga è l'ispirazione (prāṇa) e l'espirazione (apāna). Dal punto di vista della recitazione sacra è l'Oṁ, con il silenzio che ad esso segue. Al livello della vita umana è la nascita, seguita dalla morte o, anche, il ritmo sonno-veglia della coscienza. Al livello cosmico è la creazione, l'emersione del cosmo dal vuoto indifferenziato (secondo quanto abbiamo accennato la volta scorsa), quindi il ritorno del tutto a Dio dal quale era scaturito. Questa, in sintesi, la visione già adombrata nei Veda, specialmente negli inni a Uṣas, l'Aurora cosmica e a Rātrī, la notte cosmica. Emerge più esplicitamente nell'inno numero 190 del decimo libro, alla strofa 3:
poi, come prima [yathā-pūrvam], il Creatore
modellò il Sole e la Luna, il Cielo e la Terra,
l'atmosfera ed il dominio della Luce.
Il termine yathā-pūrvam è il primo a suggerire un'aperta interpretazione ciclica della creazione, ma sempre nel quadro di un processo dinamico: il mondo viene generato e sorretto come prima nel ṛta. La reticenza vedica sull'argomento viene più che compensata dalle Upaniṣad, che si profondono in descrizioni poetiche molto vivide di questa dottrina metafisica pura. Ad esempio, si guardi a questo famoso śloka (Śvetāśvatara Upaniṣad [SU], III, 2), da confrontare anche con SU IV, 1 e 11:
Uno solo è Dio, non ci può essere un secondo.
Lui soltanto regge questi mondi con il Suo potere.
Egli fronteggia gli esseri ed è il Pastore dei mondi;
dopo averli generati, alla fine del tempo li riassorbe.
Abbiamo tradotto il termine Rudra con “Dio”. Rudra è “il terribile”, appellativo divino che vuole sottolineare il senso di sproporzione provato dall'uomo al contemplare il sublime della Realtà Suprema. Da considerare incidentalmente che siamo nel filone Śivaya e Śiva viene poi identificato con Rudra, o viceversa, a seconda delle interpretazioni storiche degli studiosi.
Il concetto di Dio come Pastore dell'Universo si ritrova per la prima volta nell'inno del Ṛg Veda I, 164 (importantissimo, se non fondamentale in tema di ritmi cosmici; lo abbiamo affrontato in un articolo precedente), alla strofa 31, poi ripresa in un altro importantissimo inno, il Māyābheda Sukta (RV X, 177), “il dis-velamento di Māyā”. Māyā è l'arte, la divina sapienza misteriosa con cui il Creatore in principio “misura”, ovvero dispone le acque dell'oceano cosmico a formare i mondi e le opere. A livello di emersione dalla notte cosmica, il nome del Creatore è Varuṇa, infatti sempre associato a māyā e a ṛta nei Veda. Il citato RV X, 190, alla strofa 2, sembra proprio fare eco alle nostre parole:
Dall'Oceano, con le sue onde fu generato l'anno cosmico
Alla strofa 3 appare, come visto, il Creatore, successivamente identificato dai Purāṇa in Prajāpati-Brahma, che emerge dall'ombelico del Signore Supremo, creando il mondo materiale. La cosa non deve essere intesa però né in senso storico, né antropomorfico, bensì in senso di fasi evolutive dell'Essere. Queste ed altre considerazioni sono poi confluite nel filone Vaiṣṇava, forse il più noto in Occidente, che già si riscontra a partire dalla Mahānārāyaṇa Upaniṣad, 3-4. Ma, sicuramente, i passaggi più famosi sono quelli della Bhagavad Gītā, in cui Śrī Kṛṣṇa illustra ad Arjuna, ricalcando la Taittirīya Upaniṣad III, 1, il ciclo della manifestazione cosmica. Diamo qui alcuni esempi:
Io sono l'Origine ed anche la dissoluzione di questo intero mondo (VII, 6)
All'alba del giorno tutte le cose manifeste nascono dall'immanifesto. Al crepuscolo di nuovo si dissolvono nello stesso, in ciò che è detto l'immanifesto. Queste stesse miriadi di esseri che emergono a uno a uno, ineluttabilmente si dissolvono al crepuscolo, o Arjuna, e di nuovo emergono all'esistenza al sorgere del giorno (VIII, 18-19)
Con “immanifesto” qui si intende avyakta, ovvero la materia primordiale indifferenziata (pura quantità priva di qualità), che è uno dei pradhāna del Sāṃkhya. Vedremo la coincidenza di questo concetto con alcuni modelli cosmologici.
È importante notare che sia i piani di esistenza superiori (svargaloka, pianeti celesti, paradisiaci), che quelli inferiori (narakaloka, mondi infernali) sono sempre “al di qua” della sponda del dolore, per impiegare una metafora cara alle Upaniṣad. La morte e la sofferenza dell'inferno o la felicità e la beatitudine del paradiso sono sempre temporanei, per quanto si possano protrarre anche per migliaia o milioni di anni. L'obbiettivo è uscire dal “circolo delle esistenze terrene”, per non subire più il destino comune alla materia dell'universo, vivendo eternamente con e nell'Assoluto, Brahman. È qui che si inserisce l'unicum salvifico indiano: tutto l'universo è un ciclo, ad ogni livello, ma questa conoscenza fisico-metafisica non è fine a se stessa. Deve portarci a sperimentare un sentiero di mokṣa, di liberazione, di uscita da questa condizione ripetitiva. Si tratta della sublimazione del rituale cosmico di cui l'Eliade parla (rigenerare la Creazione ai suoi primordi) ad un livello antropologico (liberazione/restaurazione). Alcuni dei passi della Bhagavad Gītā che sottolineano questa concezione sono i seguenti:
Quando si acquisisce la conoscenza suprema, la natura dei saggi assomiglia alla mia: essi non nascono più alla creazione del mondo, né sono turbati alla sua distruzione (XIV, 2)
Avendo goduto del vasto regno del cielo, essi ritornano al mondo degli uomini, dopo aver esaurito il loro merito; coloro che seguono le ingiunzioni sacrificali dei tre Veda, desiderosi di godimento, conquistano solo il mutevole. Ma colui che trova la sua gioia, il suo appagamento e la sua luce interamente all'interno di sé, è uno yogin che ottiene il brahma-nirvāṇa, liberato nel Supremo, raggiunge il Supremo (IX, 21 e V, 24)
Ecco dunque l'importanza di comprendere la vera natura del cosmo e di applicare ad essa l'insegnamento massimo per raggiungere Brahman. Questa concezione si ritrova, per la prima volta nei sorprendenti Śatapatha Brāhmaṇa (X, 4, 3). A torto considerati confusi manuali di esegetica sacrificale, oggi si riscoprono (in Italia da Pietro Chierichetti, ad esempio) come serbatoio di intuizioni che dal Sacrificio costruiscono la visione del mondo che sta dietro a molte Upaniṣad e alla metafisica indiana, distinguendo tra sacrificio e discorso sul sacrificio. Il passo citato afferma: “Prajāpati è invero l'Anno, mentre l'Anno è la Morte. Chi conosce che l'Anno è la Morte, trascende la Morte stessa”. L'Anno è simbolo del Tempo (cfr. RV X, 190, 2), contenuto in interessanti speculazioni di altissima filosofia della Maitrī Upaniṣad, 14-16 e dell'Atharva Veda XIX, 53 e 54, in connessione nuovamente a RV I, 164, ma che esulano dal nostro breve articolo.
Il ciclo terrestre annuale (rivoluzione) rispecchia, ancora una volta, come vediamo, il ciclo creazione-assorbimento sul piano ultimo dell'Universo. Dunque, conoscere (non in senso intellettuale, ma olistico) che il Signore delle Creature è anche il Tempo, ovvero lo scorrere dinamico di tutti i processi fisici e metabolici porta a trascendere quella dimensione di morte ripetuta, guidando l'individuo a trascendere la Morte definitiva, l'annientamento, per potere vivere al di fuori di una dimensione temporale intesa come decadenza.
Questi concetti ritornano poi nelle leggi di Manu, al capitolo I, dove si dà una tavola sinottica delle età (yuga) dell'Universo, con la loro durata che complessivamente (4,32 miliardi di anni) viene equiparata al giorno di Brahma. Durante la veglia l'universo è in essere; durante il sonno del Creatore, tutto è riassorbito in Lui. Altri hanno invertito questo rapporto, immaginando che la realtà sia un sogno di Brahma. Ancora, nella trimurti si hanno riflessi dei cicli cosmici (creazione = Brahma, preservazione = Viṣṇu e distruzione = Śiva) e persino nell'epica. Naturalmente, un discorso più profondo richiederebbe altre sedi, vista la sostanziale unità della tradizione indiana che porta ogni verso delle Scritture, se correttamente interpretato, a rispecchiarsi in questo concetto profondo. La Terra verrà riportata alla sua bellezza ed al suo splendore antecedenti alla caduta, senza male e sofferenza, con vita immortale in comunione con Brahman, Dio.
In conclusione, diciamo che questa atavica invariante della realtà umana trova conferme anche nella moderna cosmologia. In seguito allo sviluppo della teoria della Relatività Generale (1915-18), i fisici avanzarono le prime considerazioni sulla “storia” dell'Universo da un punto di vista puramente matematico. G. Lemaître e A. Friedmann, con i loro lavori pionieristici in tal senso, sono considerati gli iniziatori della cosmologia evolutiva. Friedmann ottenne le sue note equazioni dalla metrica della Relatività Generale, ma esse si possono desumere immaginando l'universo, in un modello semplificato, come un gas (“fluido cosmologico”) in espansione, applicando quindi la meccanica Newtoniana. Nell'equazione compare un parametro Λ, detto “costante cosmologica”, il famoso “errore più grande della mia vita” di A. Einstein, ma su cui i fisici oggi si ricredono, recuperandolo. Vi sono quindi due tipi di soluzioni per detta equazione: una con Λ = 0 e una con Λ > 0. Senza entrare nei dettagli, diciamo che la casistica di Λ = 0, comprende tre situazioni:
1. Un universo chiuso, con geometria sferica. L'universo si espande, raggiunge un punto di massimo raggio, quindi ricollassa su se stesso, dando origine ad un big crunch, con eventuale nuovo big bang e ricreazione del tutto. Questo è lo scenario hindū, supportato da alcune recenti speculazioni teoriche sulle D-Brane (“teoria delle stringhe”) come produttrici di big bang ciclici.
2. Un universo piatto, con geometria euclidea. L'universo si espande fino a raggiungere una sua stabilità, un proprio equilibrio, raffreddandosi progressivamente, a meno che non vi sia una sconosciuta continua creazione di materia che mantenga i processi come li conosciamo oggi (ed era l'idea dell'universo statico di Einstein). Questa visione non è però incompatibile con una futura rigenerazione “locale” della Terra, prevista dai tre monoteismi.
3. Un universo aperto, con geometria iperbolica. L'universo si espande indefinitivamente, con un ritmo costante, raffreddandosi progressivamente fino alla morte termica.
Per quanto riguarda le soluzioni con Λ > 0, esse prevedono un unico scenario: un universo in espansione accelerata esponenzialmente, come se fosse soggetto ad una sorta di antigravità repulsiva. Sfortunatamente, al momento non abbiamo dati sufficienti per decidere univocamente per una di queste opzioni. Il fatto che Λ sia o meno zero dipende dal rapporto tra la quantità di materia complessiva e di energia contenute nell'Universo, che oggi si crede essere rispettivamente 30% a 70%. Tutto dipende da quanta avyakta, “materia indifferenziata” si tramuta in energia (tapas). Una corrispondenza concettuale impressionante.
Se i calcoli sono corretti, dovremmo essere nella fase in cui l'universo sta accelerando la propria espansione, poiché da detta proporzione risulterebbe Λ > 0, ma nulla è sicuro; le osservazioni che sensazionalisticamente vengono etichettate dalla stampa come “espansione dell'universo” sono relative a dati provenienti da quasar distanti da noi almeno 10 miliardi di anni luce, il che prova solo un'espansione relativa a 10 miliardi di anni fa, ma sulla quale oggi non possiamo pronunciarci né in bene, né in male. La questione resta pertanto ancora aperta. L'abbiamo riassunta nel grafico di cui sotto (fonte Wikipedia), in cui il tempo è su scala di miliardi di anni e le dimensioni dell'Universo su scala di miliardi di anni luce (cifre proprio astronomiche!):
Ci auspichiamo che il nostro piccolo contributo possa giovare non solo ai praticanti della via dello yoga, che potranno interpretare il senso cosmico delle proprie pratiche e l'interconnessione universale nota ai saggi dell'antichità (che proviene a noi oggi dallo studio sacro), ma anche ai vari studiosi di religione e scienziati che desiderano essere consapevoli della metafisica che indossano sempre, simile ad occhiali con lenti colorate, come ci ricorda Popper, dietro ogni loro teoria fisica. L'articolo non esaurisce nulla, volendo essere una semplice “introduzione” all'approfondimento personale dei brani e delle teorie citate.
PICCOLA BIBLIOGRAFIA FINALE
R. Panikkar, “I Veda – Mantramañjarī”, BUR, ed. 2016
M. Eliade, “Il mito dell'eterno ritorno: Archetipi e Ripetizioni”, Lindau, ed. 2018
A. Ferrari, “Stelle, galassie e universo: fondamenti di astrofisica”, Springer, 2011
P. Chierichetti, “Sette isole Sette oceani. Il Bhumiparvan: Geografia, miti e misteri del Mahabharata”, Ester Edizioni, 2016
J. Varenne, “Cosmogonies védiques”, Arché, 1982
R. Guénon, “L'uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta” (1925), Adelphi
di Maria Sabatini
E' con grande piacere che recensisco oggi il libro di Marco Sebastiani Yoga Sutra: antica spiritualità e moderna pratica, che ho visto prendere forma tra le pagine di questa rivista, ma che ho ritrovato in una versione molto arricchita e trasformata, nella copia cartacea che mi è stata recapitata, pubblicata da PS Editore.
Le domande che mi sono subito posta sono state due: c'era bisogno di un'altra traduzione degli Yoga Sutra? perché pubblicare questo nuovo commento?
Terminata la lettura, la mia risposta a queste domande è stata particolarmente chiara e affermativa. Sono un'appassionata del trattato di Patanjali, perché amo lo yoga e in esso questa disciplina antica viene definita e codificata in modo rigoroso e autorevole. Patanjali è il nume tutelare dello yoga. Quando hai un dubbio su cosa sia lo yoga oppure se si stia uscendo dal seminato, torna a Patanjali, rileggilo e quei dubbi svaniranno.