GLI YOGA SŪTRA ALLA LUCE DEI VEDA

gennaio 27, 2022



di Kenan Digrazia


INTRODUZIONE

Vogliamo inaugurare una serie di piccoli articoli volti a stimolare una riflessione più profonda nei praticanti dello Yoga che ci seguono su questa rivista. Si tratta di gettare nuova luce su alcuni passaggi spesso considerati a torto come “oscuri” all'interno degli Yoga Sūtra di Patañjali, il testo a fondamento del Darśana dello Yoga, una cui lettura seguita da attenta meditazione si rende indispensabile per chiunque voglia progredire in modo completo nel cammino del ricongiungimento.
    Andremo a rintracciare le direttrici esegetiche dei termini sanscriti nei Veda, che stanno alla base di tutta la sapienza e la spiritualità indica, come è ormai noto. Gli Yoga Sūtra, tuttavia, non fanno parte della tradizione śrauta, ovvero della “rivelazione udita”, cioè non sono dei testi vedici e, anzi, stando a quanto affermano molti studiosi come Mircea Eliade, il corpus dello Yoga non si origina dalla tradizione vedica, ma è stato integrato, assimilato e riformato durante il periodo in cui i caratteri dell'induismo moderno andavano delineandosi in modo via via più marcato, cioè dopo il 300-200 a. C., pure epoca di stesura degli Yoga Sūtra. Qualunque sia la sua origine, in ogni caso, quel che è certo è che «grazie a Patañjali lo Yoga, da tradizione "mistica", si è trasformato in "sistema filosofico"»1.
     Se è vero che lo Yoga integra in sé elementi eterogenei, è pur vero che Patañjali scrive in sanscrito classico, lingua indoeuropea derivata direttamente dal vedico e ad esso molto vicina; dando nuova linfa e organizzazione spirituale a una via di realizzazione che sarà poi considerata come tradizionale hindū, egli dunque non può che integrare una terminologia ed una simbologia facilmente comprensibili all'epoca, cioè non può non impiegare tutte quelle metafore e quel lessico religioso che discendono dai Veda. Si pensi oggi a quante espressioni biblico-cristiane (“anno sabbatico”, “capro espiatorio”, ecc...) siano d'uso nella lingua corrente; è chiaro che se col passare del tempo, uno desiderasse comprenderne nuovamente il senso, dovrebbe tornare al “contesto di nascita”, alle ragioni originarie e alle funzioni svolte nel testo sacro da tali espressioni. Ebbene, ci proponiamo nel nostro piccolo di compiere un'operazione analoga: quando un sūtra risulta poco chiaro, nei limiti del possibile, proveremo a tracciare la “genealogia” vedica dei suoi vocaboli, nonché a studiare come il contesto degli inni ove tali vocaboli sono presenti ci fornisca maggiori informazioni sulla simbologia, sull'interpretazione e sull'applicazione di tale sūtra.
    Siamo consci che i sūtra, per loro natura estremamente sintetici, non si prestano ad interpretazioni univoche. Per usare la metafora del grande Jaggi Vasudev, riportata da Sebastiani in Yoga Sutra – antica spiritualità e moderna pratica, un sūtra assomiglia ad una formula: come E = mc2 nasconde un intero impianto di concezioni teoriche e sperimentazioni, un vero e proprio paradigma scientifico che può essere compreso e spiegato a vari livelli, così i sūtra riassumono una profonda visione del mondo che non può essere ridotta alla semplice conoscenza proposizionale, ma che necessita di un'applicazione fattuale e personale, diversa per ciascuno, eppure armonicamente riferita ai medesimi concetti o a dottrine tra loro equivalenti. Tenendo a mente tale importante dettaglio, che secondo chi scrive è il tratto della Tradizione indica più affascinante e conforme alla natura epistemica dell'Universo, cominciamo senza indugio il nostro viaggio, le cui tappe ci porteranno a disseppellire lungo la strada antichi forzieri di Sapienza vedica.

PARTE I: LA FORZA DELL'ELEFANTE

Yoga Sūtra III, 24: बलेषु हस्तिबलादीनि  || incentrando la pratica sulla forza si diviene forti come un elefante. (2)

    La traduzione tradizionale del sūtra recita così: concentrandosi sulla forza dell'elefante la si può assimilare. Il testo è costituito solo da tre parole: baleṣu = sulle forze/potenze/vigori; hasti = l'elefante; balādīni = della forza. Naturalmente, senza comprendere con l'ausilio della simbologia vedica le varie accezioni sovrapposte di hasti e bala in sanscrito, ci si può formare l'idea di uno Yoga capace di trasformarci in supereroi degni di un film della Marvel. La cosa ci fa sorridere. In realtà, analizzando bene la situazione scopriremo che le due traduzioni non sono proprio in antitesi: se opportunamente comprese, sottintendono la medesima concezione, originariamente tracciabile nei Veda.
    Innanzitutto, cominciamo dai termini. Bala: indica la Forza olistica, nel senso di Energia divina che pervade internamente l'essere umano, donandogli una vita più attiva, un influsso maggiormente positivo per sé e per gli altri, coraggio, destrezza e chiarezza mentale che lo conducono all'immortalità. Agni, l'Immortale nei mortali, il Fuoco divino acceso nel cuore, è spesso chiamato nel Ṛg Veda balasya putra, Figlio della Forza (anche sahasas putra), cioè nato dalla Forza immanente divina che è la Vita cui tutti apparteniamo. Hasti: è il generico termine per indicare l'elefante, subentrato in epoca più tarda al Ṛg Veda. Non è il solo vocabolo per l'elefante. Ci torneremo tra un attimo.
    C'è una preghiera nell'Atharva Veda che ci permette di chiarire le sfumature spirituali da attribuire all'Elefante: si trova nel terzo libro, inno 22. Essa mostra l'aspirazione umana a raggiungere l'apice della creazione, che è la meta del percorso dello Yajña, cioè del Sacrificio come pratica sia rituale che di viaggio spirituale interiore, aspetto sul quale le Upaniṣad si concentrano molto. Il Sacrificio è il ripristino della sacralità della Realtà, è “realizzare” noi stessi l'immagine perfetta del Tutto che è già a misura d'uomo (Puruṣa). Il Sacrificio è il pieno consumarsi del proprio ego per giungere al recupero della condizione primitiva di libertà e di immortalità che apparteneva all'uomo. Tutto ciò viene rappresentato dall'elefante, la più eminente di tutte le creature, latrice di regalità, emblema della realizzazione dei giusti desideri, e in ultima istanza, della conoscenza di Brahman nel mantra (la Parola-Logos-Vibrazione). 

In RV X, 40, 4, rivolto ai poteri gemelli della Coscienza, gli Aśvin, leggiamo (traduzione di Kenan Digrazia):

«Simili a cacciatori che catturano due elefanti selvatici, consacrando noi stessi come offerta sacrificale, vi invochiamo alla sera e al mattino; infatti, voi concedete ricchi doni al momento propizio, come splendidi Eroi!».

La regalità, ovvero il perfetto dominio di se stessi, la forza fisica e morale, sono i doni di cui si parla, ottenuti grazie al perfetto armonizzarsi della coscienza interiore con quella divina (i due Aśvin), la sopra-mentale, direbbe Sri Aurobindo. Cominciano già a chiarirsi alcuni dettagli in relazione al libro sui “doni dello Yoga” nell'opera di Patanjali.

Enunciato in breve lo sfondo concettuale, passiamo a citare l'inno dell'Atharva Veda in questione (III, 22; traduzione di Kenan Digrazia), che ci aiuterà a comprendere il sūtra esaminato. Le metafore sono intuitive, il linguaggio poetico parla immediatamente alla mente. Ci limiteremo a riportare delle note esplicative per il lettore senza dimestichezza col simbolismo vedico, passando quindi alle conclusioni.

    1. La gloria dell'Elefante si eleva a vasto
splendore, essendosi manifestata dalla
Sostanza infinita: per intero fu conferita
a me da tutti gli dèi, con Aditi concorde.
    2. Mitra, Varuṇa, Indra e Rudra l'intelletto
hanno fissato su di lui! Essi sono gli dèi
che sostengono ogni cosa: mi ungano
e mi consacrino col lustro della Parola!
    3. Con la Gloria per la quale l'Elefante
è venuto in essere, che dimora in un re,
nell'uomo e all'interno delle Acque,
grazie alla quale gli dèi in principio
addivennero alla deità, con tale Gloria
o Agni, rendi anche me glorioso e forte.
    4. O onnisciente Agni, che i due Aśvin,
coronati di loto, mi diano la Tua vasta
Gloria, che sorge dal Sacrificio, quando
ci si offre a Te, simile allo splendore
del Sole o del possente Elefante!
    5. Dalle quattro lontane direzioni, fin dove
l'occhio può dirigere il suo sguardo,
possa quella grande forza della Mente
giungere a me come gloria dell'Elefante.
    6. L'elefante è ora divenuta la più eminente
delle bestie che si possono cavalcare:
mi ungo e mi cospargo della sua gioia
con lo splendore della Parola in lui!

    Ecco la stanza 1 in sanscrito traslitterato: Hastivarcasaṃ prathatāṃ bṛhad yaśo adityā yat tanvaḥ saṃbabhūva | tat sarve sam adur mahyam etad viśve devā aditiḥ sajoṣāḥ ||
    Varcas, “gloria”, “lustro”, indica pure lo splendore della Parola mantrica: deriva dalla radice ruc-, splendere, che è imparentata con ṛc, “strofa recitata”, da cui poi discende arca, che indica sia il “raggio splendido” che il “mantra”! Varcas appartiene all'elefante, qui indicato col generico Hasti. Quattro sono i vocaboli del vedico specifici per l'elefante (bhadra, mandra, mṛga e miśtra) come quattro sono i livelli della Parola (Ṛg Veda I, 164, 45). Il fatto che tale vasta (bṛhat, vastità divina interiorizzata nell'uomo) gloria si sia manifestata dall'illimitato bacino energetico divino in principio (Aditi) e che venga concessa con gioia e pari consentimento (sajoṣa) da tutte le potenze divine a chi prega, conferma che essa è l'intima conoscenza della Parola, del Brahman, la Forza in Sé.
    Riguardo alla stanza 4, notiamo che l'espressione finale è molto simile a RV X, 184, 2d, in cui i due Aśvin, inghirlandati di loto, pongono il Germe vitale nel grembo materno perché avvenga il concepimento di nuova vita (sia in senso biologico che spirituale), proprio perché il fiore di loto è il simbolo del “Germe primevo delle Acque”, la manifestazione gloriosa del Creatore nell'Oceano in principio (cfr. la tradizione vaiṣṇava). Il celebre astronomo Varāhamihira riporta che puṣkara significa non solo loto, ma anche “punta di proboscide”, il che spiega un bel doppio senso nascosto nel testo, con riferimento proprio all'Elefante: dalla punta della sua proboscide emerge il vibrato barrito, come la Parola risuona sulla punta della lingua umana. Infine, notiamo che nel primo distico si afferma che la Gloria dell'uomo può giungere solo dall'umile abbandono nelle braccia divine, con spirito di servizio e sacrificio lungo la via dello Yajña, del Sacrificio, poi divenuta Yoga o Bhakti Yoga per alcuni, tra cui Patanjali.
    Si dice ancora che la gloria dell'elefante sia forza della mente: il vocabolo indriya fu poi impiegato per gli organi di senso (Indra è l'intelletto divino). Infine, per quanto riguarda l'ultima strofa, precisiamo che nel linguaggio vedico, quando si dice che un qualcosa “è divenuto” significa  affermarne il compiersi della manifestazione in tale forma, già “contenuta” al suo interno, ma adesso pienamente e funzionalmente maturata. Non si tratta né di evoluzione, né di venire in essere dal non-essere, cosa negata sul piano ontologico dalle Upaniṣad. Si tratta invece della piena identificazione della Potenza divina con la forma poetica che viene ispirata dalla Parola mantrica in quel momento, secondo la comprensione individuale.
    Adesso è chiaro l'equivoco dietro la traduzione popolare del sūtra: essa, riferendosi ai concetti vedici summenzionati, vuole indicare che la potenza del progresso spirituale nello Yoga è equivalente a quella dello Yajña vedico, e che lo Yoga ci dona lustro e forza, perché in ogni cosa possiamo essere connessi alla Parola universale: solo così si avrà la gloria dell'elefante! Col passare dei secoli, però, subendo il concetto vedico di Sacrificio una degenerazione magico-ritualistica, i commentatori medievali, ormai ignari di cosa l'Elefante rappresentasse, si limitarono a scrivere sul sūtra in esame che è il solito principio emulativo, si assorbono le qualità dell'oggetto della meditazione, riferendosi a pratiche che hanno smarrito il senso cosmico e interiore della Parola mantrica nei Veda, limitandosi a riprodurne l'aspetto manipolativo. Ecco perché spesso noi moderni siamo in imbarazzo o scioccati nel leggere simili traduzioni, tanto da doversi rendere necessario un aggiornamento. Allora, l'ottima traduzione contemporanea di Sebastiani, ora compresa sotto la simbologia vedica, potrebbe suonare così, se spiegata: incentrando la pratica con spirito di sacrificio sulla forza divina si diviene ripieni della gloria della Parola cosmica, cioè al proprio interno si manifesta attivamente la Forza divina con i suoi doni coscienti.
    Afferma Sebastiani alla fine del suo commento sul sūtra: «Praticare con costanza e dedizione regala sicuramente grande forza d'animo, è difficile proprio perché alcuni giorni non ne avremo voglia, saremo poco motivati, e proprio questa ripetizione ci farà capire il valore e il significato della costanza». E a questo punto aggiungerei, ci farà capire lo spirito del Sacrificio interiore, bruciando le voglie dell'ego per sostituirle con una mente in armonia alla Vibrazione cosmica, alla Parola che ci donerà forza e lustro.
    Naturalmente, abbiamo potuto offrire solamente pochi spunti al lettore volenteroso, cui adesso spetta il piacevole onere e il ragionato onore di approfondire e di applicare. Al prossimo “episodio”!

 

(1) Mircea Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, a cura di Furio Jesi, traduzione di Giorgio Pagliaro, BUR, 2010; p. 23

(2) Traduzione di Marco Sebastiani, Yoga Sutra – antica spiritualità e moderna pratica, Porto Seguro Editore, 2020; p.

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