Il mantra Gayatri , la più antica e famosa preghiera

dicembre 09, 2020

di Kenan Digrazia


«Non c'è nulla di più sublime della Gāyatrī» affermano le autorevoli ed antiche leggi di Manu (II, 83), śāstra, trattato hindu di diritto, che raccoglie le regole del vivere umano secondo il dharma. In effetti, se volessimo sintetizzare l'intera costellazione spirituale induista in un solo mantra, sicuramente nessun altro farebbe più al caso nostro della Gāyatrī, che sgorga ogni giorno, mattina e sera senza sosta, dalle labbra di innumerevoli folle di fedeli, di yogin e di asceti sparsi in tutto il mondo, sin da epoche remotissime.

Cominciamo dal nome. Con gāyatrī, iniziale minuscola, devanāgarī गायत्री, s'intende un sostantivo femminile sanscrito che indica un antico metro poetico composto da ventiquattro sillabe disposte secondo una terzina di otto sillabe ciascuna. Con tale metro furono composti numerosi inni vedici, in particolare la stanza del Ṛg Veda [RV] III, 62, 10, con autore il venerato il Mahaṛṣi Viśvāmitra, che sin dalla sua stesura assunse una grande importanza nell'ambito dell'antica religione vedica, prima fase storica della tradizione hindu. Questo mantra è quindi appellato con Gāyatrī,iniziale maiuscola, o anche con il nome di Sāvitrī, in quanto dedicato a Savitṛ, che vedremo non essere proprio esattamente il Sole, come invece spesso si trova scritto. Prima di coglierne l'importanza, dobbiamo specificare che un mantra non è una formula magica e neppure una frase puramente logica: esso collega, in modo particolare, attraverso l'unione delle facoltà intellettive e relative alla volontà e all'enunciazione dell'individuo, la spiritualità del singolo e la realtà presa nel suo insieme. Mantra deriva dal sanscrito man-, “pensare”, da cui manas, mente e, infatti, si tratta di un  enunciato volontario e coincidente con l'azione (J. L. Austin), nel quale dalla mente scaturisce la parola, seguita dal respiro vitale: una riproposizione della struttura dell'Essere al livello “interiore”. In esso scorgiamo la sublimazione del desiderio di trascendere il tempo per mezzo della “ricapitolazione” dello stesso [vedi M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno].

Si tenga presente che l'efficacia di un mantra dipenderà sempre dall'autorità spirituale di colui che lo pronuncia, come ci insegna il famoso esempio del re Janaka. Janaka, re di Videha, presente in molte Upaniṣad, chiede ad un suo ministro di culto, alcuni dicono lo stesso Viśvāmitra, di insegnarli il suo mantra più potente. Al rifiuto del ministro, il re insiste. Allora il brahmano ordina ad un paggio che si trova lì vicino di arrestare il re. Il paggio non si muove. Il re va allora su tutte le furie e ordina, questa volta lui, al paggio di arrestare il ministro. Alla pronta esecuzione di questo ultimo ordine, il ministro scoppia a ridere, esclamando: «i nostri ordini erano gli stessi ed anche colui che li riceveva. Eppure in un caso il comando non fu eseguito, mentre nell'altro sì!». Questo aneddoto vuole significare che un mantra autentico non dipende soltanto dal modo in cui lo si pronuncia, ma anche dall'autorevolezza dell'officiante e dalla continuità fisica, dev'essere insegnato da un ācārya, un maestro spirituale, qualificato, e soprattutto, da fede e consapevolezza personali del discepolo. Ecco perché quando ci si avvicina alla Gāyatrī è di vitale importanza comprenderne l'efficacia attraverso lo studio del suo significato, iniziando dalle spiegazioni che la stessa Scrittura, la śruti, ne dà, per poi proseguire eventualmente nell'alveo di un insegnante spirituale.

Già nel Ṛg Veda si allude alla posizione privilegiata del mantra Gāyatrī. Ad esempio, nello straordinario inno cosmogonico RV I, 164 [confronta: L'attualità del Rig Veda, un caso eclatante, pubblicato su questa rivista], stanze 24 e 25, si dice che la Gāyatrī sia l'essenza costitutiva dei Ṛg Veda, ossia vedamatā, “madre dei Veda” si dirà successivamente, e che essa «sia come un candeliere a tre braccia: pertanto, eccelle in forza e grandezza», in riferimento ai tre piedi di otto sillabe ciascuno. Tale numero è il primo messaggio “cifrato” nel significato mistico del mantra: 8x3 = 24. L'otto il numero della perfezione secondo gli indiani, in riferimento anche ai primigeni otto figli di Aditi, i mesi solari, in relazione alla luce, fondamento della Gāyatrī. Il tre, la triade costitutrice dell'universo: cielo, terra e mondo di mezzo, la trimurti, i tre aspetti della divinità; “Tutto procede in triplice modo” [Mahābhārata XIV, 39, 21]. Moltiplicati danno 24, doppio di 12, 3x4, come a voler confermare, attraverso la duplice ripetizione, il matrimonio tra Cielo [il tre, si veda ad esempio AV X, 7, 40 e RV IV, 53, 5 e I, 163, 4] e la Terra [il quattro, cfr. RV X, 90, 3 e AV II, 1, 2]. Vi è l'intenzione, confermata dall'analisi che ora faremo, di approcciarsi alla piena totalità dell'Essere. L'Atharva Veda, X, 8, 41, localizza il non-nato, il Principio primo, ovvero Brahman, «più in alto dell'alta Gāyatrī». Lo Yajur Veda [YV], per sua natura, la connette numerose volte al Sacrificio, attraverso il potere della Parola nelle litanie (YV III, 35; XXII, 9; XXX, 2 e XXXVI, 3), per acquistarne il messaggio con le sue vibrazioni: un tutt'uno cui fanno riferimento i concetti di bindu, il punto unitario della creazione, e nāda, l'assoluto, il potere soggiacente la creazione, nel tantrismo (cfr. anche i Mīmāṃsā Sūtra).

Si tenga presente, però, che la Gāyatrī non è necessariamente un mantra segreto, nel senso esoterico del termine, e neppure una formula che solo certi iniziati ai culti misterici potevano conoscere. Viene invece insegnato in occasione della dīkṣā, la consacrazione, traducibile anche con iniziazione, ma a patto di tener presente che riguarda il puro e semplice ambito dell'Upanayana, il sacramento hindu ancor oggi largamente praticato da tutti i brahmani all'età di otto anni, per le altre due classi, kṣatriya e vaiśya, rispettivamente a 11 e a 13, che segna l'ingresso nella comunità dei dvija, i “nati due volte” col dono del cordone sacro. Inizialmente, quindi, solo gli śudra, i servi, ne erano tagliati fuori. Lo Śāṅkhāyana Gṛhya Sūtra, importante testo appartenente ai Kalpa Sūtra della smṛti, la tradizione, riporta come e in che contesto detto mantra debba essere insegnato dal maestro al discepolo, col solo col requisito fondamentale, di cui prima detto, ovvero la seria consapevolezza del significato e dell'essere.


Le Upaniṣad si soffermano grandemente sulle varie spiegazioni simboliche della Gāyatrī, che troviamo in particolare nella Bṛhadāraṇyaka [BU] V, 14, 6-7, nella Chāndogya [CU] III, 12, 1-9 e nella Maitrī [MU] VI, 7 e 34. Un'intera Upaniṣad, addirittura, le è stata dedicata, la Sāvitrī Upaniṣad [SāU]. Nella Bhagavad Gītā (X, 35), Kṛṣṇa, raccontando le glorie dell'Assoluto, afferma che come la Gāyatrī è il più alto mantra, così il Signore Supremo è la più alta delle parole, invero la Parola stessa.

Invece di limitarci a riportare questi brani, preferiamo, per una più facile comprensione, costruire uno schema esplicativo dei livelli di cognizione della Gāyatrī, mantenendoci fedeli a detti testi, ma citandoli solo dove necessario, a supporto della nostra spiegazione. Faremo ora riferimento alla tradizionale recitazione del mantra, comprensiva dell'invocazione iniziale e finale. 

ॐ भूर्भुवः स्वः
Oṁ bhūr bhuvaḥ svaḥ


तत्सवितुर्वरेण्यं
tat savitur vareṇyaṃ

भर्गो देवस्य धीमहि
bhargo devasya dhīmahi

धियो यो नः प्रचोदयात् ॥
dhiyo yo naḥ pracodayāt

ॐ शान्तिः शान्तिः शान्तिः
Oṁ śāntiḥ śāntiḥ śāntiḥ

Innanzitutto, l'Oṁ. Esso si compone di A + U + M, rappresentando i tre livelli di emersione della realtà (creazione, mantenimento e riassorbimento), nonché la triade costitutiva dell'uomo: mente, corpo e respiro vitale. In sé richiederebbe una trattazione a parte, ma concentriamoci sulla sua relazione con la Gāyatrī. I tre piedi del mantra vero e proprio, le tre righe in grassetto, corrispondono a tre livelli crescenti di consapevolezza spirituale, nel cammino di un'intera vita volto a raggiungere l'unione, yukta, con Brahman. Questi tre livelli sono in corrispondenza coi tre suoni in uno dell'Oṁ [confronta: SāU, 14], nonché con le tre parole dell'invocazione, che si riferiscono anche a tre atti logico-creativi da parte dell'Assoluto, come spesso ripetono le Upaniṣad. Vi si riscontrano anche i tre Veda: il Rgveda, Veda delle strofe, il Samaveda o Veda delle melodie, il Yajurveda o Veda delle fomule, cui si aggiunge l`Atharvaveda, più recente degli altri, costituito da poemi e da formule,  mescolanza di mantra mormorati e recitati, quindi considerato tra i tre.
Bhūr è in connessione con bhumī, la Terra. È la dimensione terrena, quotidiana, ma anche, se andiamo a considerare l'intero universo, è la dimensione bhuvanasya, ovvero di tutti gli esseri fisici, dotati cioè, di un corpo materiale: animali, uomini, o abitanti di altri pianeti. È il mondo sensibile. Nella mente umana è l'intelletto, la scienza, il primo approccio a ciò che ci circonda. È la “A” dell'Oṁ, l'ayam “questo” del secondo mahāvākya, dei quattro “grandi aforismi” delle Upaniṣad: Ayam Atma Brahma, questo sè è il Brahman, o questo spirito individuale è lo spirito assoluto.
Bhuvaḥ è l'antarikṣa, il mondo di mezzo, da intendersi, a livello planetario, come l'atmosfera; a livello dell'intero universo come l'insieme delle realtà soprasensibili: etere, campi di energia, deva, asura, eccetera. È l'inizio di un rivolgimento del processo cognitivo umano, che guarda all'interiore, ma che ancora non ha ottenuto una piena giustificazione dell'unità. È la “U” dell'Oṁ, l'ātman del secondo mahāvākya di cui sopra.
Svaḥ è in connessione con svarga e dyaus, il cielo. È la dimensione del firmamento a livello planetario, del trascendente al livello dell'universo. Qui ha sede il Supremo, Brahman, l'Eterno, la giustificazione ultima e il Sostegno dell'universo, Skambha, il “cielo supremo”, parama vyoma. Nell'uomo è la conoscenza metafisica pura. È la “M” dell'Oṁ, il Brahman del secondo mahāvākya.
Questo movimento crescente verso l'Uno (ayam ātmā brahma = questo ātman è Brahman) si riflette, come ci dice la BU V, 14, 8, anche nella triade prāṇa, apana e vyana, il cui significato profondo è noto ad ogni sincero praticante dello yoga. Curiosamente, si fa notare l'incredibile coincidenza metafisica della lingua sanscrita: bhumī, antarikṣa e dyaus sono proprio otto sillabe, come un piede della Gāyatrī! La freccia verticale ascendente della realizzazione di Brahman continua ad essere seguita lungo i tre piedi del mantra, ma all'interno di ciascun piede essa subisce, per così dire, un'inversione nell'ordine esplicativo, dall'alto verso il basso. Vediamo, parola per parola, il come ed il perché.


PRIMO PIEDE, LA CONOSCENZA INTELLETTUALE, ORTODOSSIA; MANAS, LA MENTE DIVINA

1) tat = Quello; accusativo neutro singolare, pronome personale.
Compare per la prima volta con accezione metafisica in RV I, 164, 46, «i saggi chiamano in molti modi quell'Uno». Nelle Upaniṣad è assolutamente fondamentale, quale identità non qualificata, nirguṇa, della Realtà Ultima, non-duale. È la Pienezza, dalla quale si attinge pienezza per l'universo, senza che essa cessi d'esser Pienezza. È il Pilastro cosmico, il Signore delle creature senza le Sue creature. La Signoria divina è legittimata dall'adorazione libera ed amorevole che le Sue creature Gli corrispondono. Dio, nel momento di essere contratto in Sé, prima della manifestazione universale, non è propriamente il Signore, poiché non ha ancora nessuno che Lo riconosca come tale, non ha alcuna creatura con la quale intrattenere un rapporto d'amore e della quale preoccuparsi. Siamo al livello assolutamente trascendente, ineffabile, appunto riferibile solo per mezzo di un pronome personale dimostrativo, “Quello”: Atto Puro, Principio primo non causato. La Kaṭha Upaniṣad, al quarto libro, ripete a mo' di ritornello il fatto che “questo [idam, l'intero universo] è Quello”, ma i due non devono essere confusi. Si tratta di un'identità advaita, non duale, d'amore e di luce, come dicono i mistici. Tat ricorre infine nel quarto mahāvākya: Tat Tvam Asi, questo sei tu, momento ineffabile della realizzazione suprema [NdR: alcune tradizioni invertono terzo e quarto mahavakyas]. Si mette in corrispondenza con l'aspetto paterno di Dio. La freccia cognitiva va verso il basso, vediamo prima il fondamento di tutto, ma ancora solo intellettualmente.

2) savitur = di Savitṛ; genitivo maschile singolare. Savitṛ, come dimostra la radice del nome, è il Vivificatore, Colui che dà e alimenta la vita, l'aspetto rifulgente della Luce divina stessa. Non è propriamente il Sole, Sūrya, ma è certamente simboleggiato da esso. I passi del Ṛg Veda I, 35, 9; VII, 45, 2 e molti altri, testimoniano che Savitṛ è l'energia stimolante del Sole, la causa prima della sua luce, anzi la causa di ogni luce nell'universo, “la Luce delle luci”. È la Luce che emerge dal seme primordiale della creazione, quel dorato Hiraṇyagarbha, l'inesprimibile Germe d'oro noto anche come Ka, quindi identificato con Prajāpati-Brahma (RV X, 121 e CU III, 17, 7). E come Luce, non può che essere manifestazione della Realtà Suprema, è dunque la forma intelligibile del Dio infinito ed invisibile. Dio, dopo aver creato, decide di manifestare la propria Persona in modo percepibile, al fine di intrattenere un rapporto diretto con le sue creature e con l'Universo stesso. Tale rapporto passa attraverso la Luce, simbolo unico che connette Cielo e Terra: siamo in una fase intermedia. Il Dio personale, il saguṇa brahman, è simboleggiato da Savitṛ, nei Veda spesso appellato come il “Signore rifulgente”, equiparato poi anche alla trasfigurazione di Kṛṣṇa nella Bhagavad Gītā, decimo libro. Inoltre, la sua emersione dalle acque cosmiche è foriera del giorno cosmico, manifestazione, come il sorgere del Sole sulla terra: è una rivelazione solare e diurna di Varuṇa, il Signore visto in una fase “oceanica e notturna” antecedente alla creazione [cfr. RV I, 35, 1]. Per questo motivo è associato a Mitra [Sūrya Upaniṣad 71] e al ṛta, l'ordine cosmico [SU V, 81, 4], nonché, come Varuṇa, alla purificazione dai peccati e dagli errori [es., RV IV 54, 3].
Spesso si attribuisce alla Gāyatrī il potere di purificare dai peccati precedenti alla sua recitazione, proprio perché comprendendone il senso nel desiderio di cambiare il proprio modello di vita, ci si rivolge direttamente alla manifestazione suprema di Brahman e si ottiene purificazione. Savitṛ è infatti l'Amico degli uomini e il loro Ispiratore, luminoso Stimolatore della vita e della crescita nell'intero creato, per questo sovente associato a Soma [AV VII, 14, 4].
Savitṛ sta all'Universo, Sāvitrī, genitivo, di Savitṛ, come il marito alla moglie, il fulmine al tuono, la Parola al mantra Gāyatrī stesso: questa è la consapevolezza crescente della vera non-dualità [SāU, 1-10].

3) vareṇyaṃ = glorioso, il più eccellente; adesso scendiamo fino al piano della risposta umana: la fede, śraddhā. L'uomo al contemplare la manifestazione di tutto questo spettacolo divino e celeste, crede e collabora con un aggettivo superlativo, ispirato da Colui che è l'Ispiratore. Non solo, ma la gloria divina, Śrī, accompagna in modo inseparabile la manifestazione personale del Signore, sicché le due cose sono uno, come rappresentato spesso nel simbolo indiano della coppia divina, pur con tutte le sue varianti locali. Entra in gioco una dimensione visiva, ma anche spirituale della Luce. Abbiamo proceduto, dunque, dalla trascendenza pura, alla manifestazione, quindi alla gloria, che appare affinché gli uomini la ammirino e vi partecipino attivamente, per mezzo della fede alimentata dallo Spirito divino.
Siamo al primo piano della conoscenza, ma essa, quale fondamento metafisico perfetto, non può che essere deduttiva: il Principio Primo è, si manifesta, quindi coinvolge tutto il cosmo in una tri-unità che il lettore potrà trovare rispecchiata quale sommo invariante di ogni livello di lettura del mantra: creazione, emergere del giorno, natura di Dio, crescita umana e liberazione, eccetera.

SECONDO PIEDE, CONOSCENZA FATTUALE, ORTOPRASSI, AGIRE IN MODO ORTODOSSO; DHYANA, LA CONTEMPLAZIONE

1) bhargo = splendore, fulgore; si tratta della contrazione vedica dell'accusativo bhargam, che concorda con vareṇyam: è dunque “[il più eccellente] splendore” quello che ci apprestiamo a contemplare. Ancora una volta, il movimento verticale parte dalla gloria inaccessibile di Dio, ma ad un nuovo livello di consapevolezza. Ci muoviamo ora sul terreno della luce che sconfigge le tenebre, quell'aurora cosmica cantata dai veggenti vedici in molti inni. Contemplando quanto visto al primo piede, ora l'uomo rilegge il fulgore divino come assenza d'ogni imperfezione e d'ogni peccato, pāpa. Il Signore compie un atto di mṛḍīka, di misericordia, di grazia. Da Lui viene quella luce che purifica l'uomo da tutti i suoi peccati, da Lui proviene la rigenerazione, sia al livello cosmico che personale.

2) devasya = della divinità; genitivo singolare. Ancora una volta, da una figura trascendente ad una manifestazione della stessa. Ci si riferisce sempre a Savitṛ, ma, mentre al verso precedente Dio viene nominato con il titolo appropriato ad una presentazione cosmica e trinitaria, ora ciò avviene mediante il generico appellativo di divino, celeste, deva da div. Il genitivo indica il reale movente di questa scelta lessicale: è di Dio lo splendore, ma anche noi siamo di Dio, apparteniamo a Lui. Dio è nostro e pure degli altri [AV VI, 16], noi siamo sua progenie. Dio è mediatore e connettore delle esperienze umane lungo i vari piani dell'esistenza. L'appartenenza a Dio è il centro di tutto, non a caso è proprio la parola centrale del mantra. Con-centrare, meditare, vuol dire fare di Dio il centro della propria vita e dei propri pensieri, condensare la Realtà fino a vedere “Lui in tutti gli esseri e tutti gli esseri in Lui” [ Īṣa Upaniṣad, 6]. È un piano pratico ed intermedio tra la meditazione mentale e l'applicazione fattuale della grazia purificatrice.

3) dhīmahi = meditiamo; dalla radice del verbo √dhā, prima persona plurale del modo aoristo, tempo ottativo precativo. La prima persona plurale indica l'attuazione collettiva dell'atto: non è più una conoscenza singolare, ma una ritualità condivisa, un'azione partecipata, una dimensione sociale del culto. È necessaria una adesione comune, un'integrazione del tutto nel dinamismo cosmico, insomma la conoscenza di Dio passa anche dalla conoscenza dei nostri simili. Il modo aoristo, che non esiste in italiano e in latino, ma frequente in molte lingue indoeuropee tra cui sanscrito e greco, indica un'azione puntuale, che non porta alcuna connotazione temporale, ma che semplicemente si riferisce all'azione di per sé. E' sempre il momento giusto per meditare lo splendore di Dio, per conoscerlo e per seguirlo, per abbandonare le azioni malvagie e proseguire lungo il sentiero della rettitudine, stessa radice da ṛta appunto.
Infine, il tempo ottativo precativo, forma verbale unica del sanscrito vedico, tipico delle invocazioni, indica un desiderio, un'esortazione a mo' di preghiera o di benedizione: la lode e la fede costituiscono sempre una libera risposta umana alla libera grazia divina, su base volontaria e d'amore, mai sotto una veste impositiva. Dio non è un padrone, ma il Padre. La mente umana viene illuminata solo se lo desidera intensamente e mai in modo limitato al singolo: all'illuminazione segue sempre la comunicazione di quanto ricevuto alle menti vicine, altrimenti non si può parlare di vera illuminazione. Su questo solco si pongono le vite dei grandi ṛṣi, saggi dell'antichità, o di Buddha.
Il movimento deduttivo-discendente ci ha fatto invece ascendere ad una pratica che diventa vero movente della crescita individuale, dall'ortodossia all'ortoprassi: dalle regole alla loro applcazione. Adesso, le due vie, quella in su e quella in giù, si equivarranno, o meglio, si incontreranno nell'ultimo sorprendente piede della Gāyatrī, “ciò che crea l'unione di uomo e donna” (SāU, 12), ovvero di Creatore e creatura.

TERZO PIEDE, CONOSCENZA ASSOLUTA, INCONTRO; SAMADHI, RICONGIUNGIMENTO

1) dhiyo = menti, pensieri; forma contratta dell'accusativo femminile plurale dhiyaḥ. Si intende quindi sia la Mente, corrispondente al Padre Celeste, sia le menti dei singoli. Nel primo caso seguiamo un già analizzato filone interpretativo deduttivo, nel secondo caso, invece, il rapporto si inverte e dalle nostre menti, dopo aver compiuto un atto pubblico e privato di meditazione sulla conoscenza intellettuale, si ha la partenza di quel moto di rinnovamento, di illuminazione, che rende la mente simile ad “acqua pura versata su acqua pura” , Kaṭha Upaniṣad, IV, 15, prende l'avvio “la nuova innocenza”, per usare una metafora di ispirazione taoista.

2) yo naḥ = ciò che è di noi; ancora una volta un termine genitivo in posizione centrale (dopo savitur e devasya) a voler sottolineare il ruolo mediatore. La perfezione compositiva non poteva essere più eccellente. Questa volta siamo noi ad esser diventati mediatori. La pratica della conoscenza ci ha portato ad avere conoscenza, ovvero rapporto intimo e personale con l'Assoluto, per cui possiamo mediare anche noi, nei confronti di altri che non lo conoscono ancora. Tutto ciò è integrare la realtà personale, puruṣa, in noi. Dopo la Mente, è il regno della Parola, l'unione, yukta, passa attraverso l'essere umano.

3) pracodayāt = che Egli possa illuminare; è un verbo nuovamente desiderativo. Non c'è illuminazione di un oggetto se esso non viene “colpito” dalla luce; allo stesso modo, le nostre menti, una volta purificate ed accostate alla Realtà Ultima divengono luminose solo per opera dello Spirito, che permette di comprendere e di realizzare la sfolgorante e trasparente identità ātman-brahman. Siamo ascesi alla Luce divina, ma è Dio che per primo ci ha illuminato. Riflettere è meditare, riflettere è rimandare agli altri quella Luce ricevuta gratuitamente, da splendore a splendore, non più in una pesante identità dell'essere e neppure in un modo forzato o unicamente orizzontale. Adesso tutto è integrato e raggiunge l'Uno è compatta massa di coscienza e di saggezza, come espresso nell' Aitareya Upaniṣad III, 3. La vera preghiera integra sempre i tre mondi, divino, umano e cosmico, in uno. Così anche delle due frecce, dei due cammini alla liberazione. La perfetta interscambiabilità dei due approcci si riflette anche nel fatto che, leggendo verticalmente la Gāyatrī, si può simmetricamente riscontrare la stessa dinamica trinitaria (tat/bhargo/dhiyo = Pienezza divina; Savitur/devasya/yo naḥ = Signore personale; vareṇyaṃ/dhīmahi/pracodayāt = ricongiungimento con lo Spirito universale) del primo piede, riflessa nell'ultimo piede in entrambi i sensi.
A completamento di questa riflessione, citiamo la Śvetāśvatara Upaniṣad  I,6 e II,14, [NdR: traduzione di Kenan Digrazia], che si riallaccia perfettamente a quanto detto fin'ora, senza dover aggiungere nient'altro:

In questa grande ruota di Brahman, l'uomo vaga ritenendosi separato dall'Ispiratore.
Ma quando da Lui proviene la grazia, si ottiene l'immortalità (…)
Come uno specchio, ricoperto di polvere, quando viene pulito risplende di nuova brillantezza,
così è di colui che, scorgendo la vera natura dell'ātman, raggiunge la meta ed è liberato dal dolore.


Il risultato è armonia, concordia e pace, RV X, 191. Per questo il mantra termina con l'invocazione a śāntiḥ; la triplice pace e invocazioni delle Upaniṣad del gruppo dello Yajur Veda “nero” o del Sāma Veda, si riferisce alla connessione olistica coi tre mondi nella piena comprensione dei tre piedi della Sāvitrī. L'Oṁ ricapitola infine ogni cosa e diviene vero assenso, “così è”. Diamo dunque la traduzione che riteniamo più fedele e sintetica (nel senso di sintesi delle tre dimensioni analizzate). Astenendoci da voli di fantasia, riteniamo di poter concordare con la traduzione del mantra Gayatri di Raimon Panikkar:

Meditiamo sullo Splendore glorioso
del Divino Vivificatore.
Possa Egli illuminare le nostre menti!


Abbiamo attraversato i tre mondi, le strutture divine e metafisiche, la crescita interiore, la fede, la religione. Ora si comprenderà forse l'importanza data a questo mantra nell'induismo, a questo vero mesocosmo, specchio dell'intero Universo, quasi fosse una monade leibeniziana: sostanza semplice, priva di parti, inestesa, indivisibile ed eterna.
Abbiamo detto che la Gāyatrī ha tre piedi. In realtà, la BU V, 14, 6-7 sancisce l'esistenza di un quarto piede, in analogia al quarto del Puruṣa in RV X, 90 o della Parola in RV I, 164, 45, nonché al quarto stadio dell'Oṁ, il silenzio, il turīya [confronta: Māṇḍūkya Upaniṣad 12]. È il compimento finale, pienamente, fino al Nirvāṇa. Siamo nel regno della realizzazione metafisica, della pratica di cui non si può più dir nulla a parole, proprio perché non c'è più nulla da dire.
La SāU 13 conclude: "chi conosce questa Sāvitrī vince la morte". Abbiamo capito cosa voglia dire conoscere, integrando tutti i movimenti e le manifestazioni universali in sé, anzi scoprendo nel Sé, ātman, la Sorgente dell'idam sarvam, “di tutto questo”, la Fonte della propria vita. Questa scoperta conduce all'unione con la Vita stessa, che, per definizione, non può morire: ecco vinta la morte, ecco raggiunta la liberazione dalla sofferenza. Tuttavia, come abbiamo visto, la strada è lunga e tutto comincia sempre dalla principio divino che si manifesta nei cuori e nelle menti. È una forza che non deve essere sforzo, altrimenti è vana illusione: è l'intimità con Dio che diviene la cosa più naturale di questo mondo, “acqua pura versata su acqua pura”. Non a caso lo Yajur Veda XXXIV, 1-6, presentandoci l'elargizione della grazia divina, invoca, attraverso varie immagini del medesimo invariante universale, l'ātman, “la Luce delle luci che procede lontano”. Si tratta di strofe la cui lettura è fortemente consigliata per completare ed ampliare il quarto stadio, detto precedentemente, la connessione tra Luce, Sole di Giustizia divino e la liberazione dalle tenebre della malvagità.

Naturalmente, non pretendiamo di avere esaurito la questione con questo breve scritto. Ma ci piace pensare di aver dato una bozza di schema alla luce del quale poter leggere e rileggere tutte le varie ingiunzioni della śruti, delle Scritture, affinché questo mantra divenga, attraverso la pratica giornaliera e l'abbandono fiducioso, una vera universale “preghiera dell'Essere” ed un “essere nella preghiera” continuo per ogni praticante. 




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