di Marco Sebastiani
Introduzione: Vasiṣṭhāsana tra Mito, Filosofia e Pratica
L'universo delle āsana, le posture dello yoga, è comunemente percepito come una disciplina eminentemente fisica, volta al benessere corporeo e alla gestione dello stress. Tuttavia, una lettura più profonda rivela che queste posizioni non sono semplici esercizi, ma incarnazioni simboliche di un ricco e millenario patrimonio mitologico e filosofico. Questo articolo si propone di esplorare la figura esemplare di Vasiṣṭhāsana, nota anche come la "posizione della panca laterale", per disvelare le stratificazioni di significato che la rendono una vera e propria meditazione in movimento.
Il nome sanscrito della postura non rimanda, come suggerirebbe la sua forma, a un semplice asse o panca laterale, ma è un omaggio a una delle figure più venerate della tradizione indiana: il saggio Vasiṣṭha [3, 4, 5]. Il termine vasiṣṭha è un superlativo che significa "il più eccellente" o "il più saggio", mentre āsana denota, in un contesto yogico, una "postura", spesso inteso come posizione per la meditazione. La scelta di attribuire il nome di un così eminente maestro a una postura complessa non è casuale, ma suggerisce che il suo significato trascenda l'aspetto fisico, veicolando un profondo insegnamento spirituale.
Lo sviluppo dell'Haṭha Yoga ha portato a una complessa nomenclatura che attinge dal vasto pantheon induista e dalla sua iconografia. Ogni posizione diventa un racconto, una metafora di un archetipo, una divinità o un'impresa mitologica, trasformando la pratica fisica in un rituale di incorporazione simbolica [6, 7]. Attraverso l'analisi della figura mitologica del saggio Vasiṣṭha, del trattato filosofico a lui attribuito, lo Yoga Vāsiṣṭha, e del profondo simbolismo della postura stessa, questo articolo intende mostrare come Vasiṣṭhāsana sia l'incarnazione di una filosofia di saggezza e non-attaccamento, l'ideale del liberato (o illuminato) in vita (jīvanmukta) [3, 8].
Il Saggio Vasiṣṭha, Archetipo del Precettore Spirituale
La Figura del Rishi (ṛṣi)
Vasiṣṭha è una figura centrale e antica nel pantheon induista. È annoverato tra i Saptarṣi, i sette grandi ṛṣi o "veggenti" menzionati fin dal Rigveda, il più antico testo sacro dell'India [3, 9, 10]. Questi saggi sono venerati come "fari che illuminano il mondo" con la loro profonda conoscenza e i loro poteri spirituali [10]. La tradizione li classifica in tre categorie principali: i devarṣi, che vivono tra le divinità; i brahmarṣi, di origine sacerdotale; e i rājarṣi, di origine regale [11]. Vasiṣṭha, per la sua natura complessa e il suo percorso spirituale, incarna l'ideale del brahmarṣi, il saggio per eccellenza.
Le origini di Vasiṣṭha, raccontate in diversi testi, ne sottolineano la natura archetipica e ultraterrena. Secondo i Purāṇa, egli fu in una delle sue nascite un manasaputra, ovvero un "figlio della mente" creato direttamente dal dio Brahmā [9]. In un'altra narrazione, la sua origine è legata a una complessa vicenda che lo vede rinascere dal seme dei dèi Mitra e Varuṇa, raccolto in un'urna dopo che questi avevano visto la ninfa celeste Urvaśī [9]. La pluralità dei suoi racconti di origine indica la sua straordinaria importanza e la sua presenza in molteplici cicli cosmici e narrativi, consolidando il suo ruolo di pilastro della tradizione vedica e del dharma.
Vasiṣṭha nel Rāmāyaṇa
Vasiṣṭha non solo fu il "precettore" di Rāma [3] ma anche in un ruolo di più ampia portata: egli fu il purohita, il sacerdote di corte e consigliere spirituale dell'intera dinastia di Ikṣvāku, a cui appartenevano Rāma e suo padre, il re Daśaratha [3, 9]. La relazione tra Vasiṣṭha e Rāma non è quindi una semplice storia di istruzione individuale, ma una profonda metafora del ruolo cruciale che la saggezza spirituale riveste nel mantenimento dell'ordine sociale e politico.
Nella cultura indiana, il purohita non è solo un sacerdote cerimoniale; è il garante del benessere e della prosperità del regno. La sua sapienza e il suo potere spirituale sono considerati la vera fonte della legittimità e del successo del re. La scelta di Vasiṣṭha come guida per il giovane Rāma, che inizialmente si mostrava svogliato e apatico [3], non è un atto di formazione personale, ma una mossa strategica per assicurare che il futuro regnante fosse in sintonia con i principi cosmici del dharma. La saggezza di Vasiṣṭha non era destinata solo a liberare l'anima di Rāma, ma a infondere la rettitudine nel cuore del regno che avrebbe governato.
La Rivalità con Viśvāmitra: Una Storia di Trasformazione
Una delle narrazioni più celebri legate a Vasiṣṭha è la sua leggendaria rivalità con il saggio Viśvāmitra [9, 12, 13]. Analizzeremo in dettaglio Visvamitrasana nell’articolo dedicato a questa posizione. Questo conflitto, lungi dall'essere una semplice contesa personale, costituisce una delle parabole più significative della filosofia indiana sulla natura del potere. Viśvāmitra, all'epoca un potente re (rājarṣi), desiderava ardentemente possedere la vacca divina Nandini, che apparteneva a Vasiṣṭha e poteva esaudire ogni desiderio materiale [9, 13]. Di fronte al rifiuto del saggio, Viśvāmitra usò il suo vasto esercito per tentare di sottrarre la vacca con la forza. Ma Vasiṣṭha, senza ricorrere alle armi, sbaragliò l'intero esercito reale usando unicamente il potere del suo brahmadaṇḍa, un semplice bastone reso invincibile dalla sua profonda penitenza e conoscenza [12, 13].
L'umiliazione subita spinse Viśvāmitra a rinunciare alla sua forza regale e a intraprendere un'austera e lunga penitenza (tapas) per superare Vasiṣṭha in potere spirituale e diventare egli stesso un brahmarṣi [13]. La narrazione vuole evidenziare come la forza delle armi e il potere materiale siano effimeri e inutili di fronte al potere incommensurabile della conoscenza spirituale e del distacco [12]. La trasformazione di Viśvāmitra, da re mosso dall'ego e dal desiderio a saggio che conquista le sue passioni, offre un'illustrazione perfetta della categoria dei rājarṣi [11] e del percorso che porta un individuo a trascendere i suoi limiti terreni. Il conflitto si conclude non con una vittoria schiacciante, ma con il reciproco riconoscimento e la fine dell'inimicizia, dimostrando che la vera saggezza si manifesta nel riconoscimento della trasformazione altrui.
Lo Yoga Vāsiṣṭha, un Trattato di Filosofia Non-Dualista
Le vicende legate a Vasiṣṭha e al suo ruolo di precettore di Rāma trovano la loro massima espressione nel testo filosofico a lui attribuito, lo Yoga Vāsiṣṭha [14, 15]. Questo testo, uno dei più vasti della tradizione indiana con oltre 29.000 versi, è un'opera post-classica datata tra il VI e il XII secolo d.C. [14]. Sebbene la tradizione ne attribuisca la paternità a Vālmīki, l'autore del Rāmāyaṇa, gli studiosi ne discutono l'effettiva autorialità e datazione [15]. Il testo si articola in sei sezioni tematiche progressive, partendo dal distacco (Vairāgya) fino alla liberazione (Nirvāṇa) [14].
Il concetto cardine dello Yoga Vāsiṣṭha ruota intorno al presupposto che l'intero mondo fenomenico, con le sue leggi e i suoi oggetti, è una "creazione della mente" [16], un "gioco della Coscienza" [16]. Questa visione non nega l'esistenza del mondo, ma ne rivede la natura. Il mondo non è una realtà oggettiva e separata, ma una proiezione, un'illusione ottica analoga al blù del cielo [17, 18]. La sofferenza umana non deriva da cause esterne, ma dall'ignoranza di questa verità fondamentale. L'obiettivo spirituale non è quindi la fuga dal mondo, ma un radicale cambiamento di prospettiva, un "risveglio" dal sogno della mente [16].
A differenza di altre tradizioni che enfatizzano il fatalismo, lo Yoga Vāsiṣṭha esalta l'importanza della ragione (yukti) e dell'impegno personale (puruṣārtha) [17, 19]. Il testo sfida il lettore a interrogare le proprie credenze e a non accettare passivamente le verità spirituali senza una profonda indagine personale. Si posiziona in una complessa dialettica tra l'azione (karma) e la conoscenza (jñāna), suggerendo che la liberazione non è raggiunta da una delle due vie singolarmente, ma dalla loro armoniosa unione [19]. L'azione deve essere guidata dalla conoscenza, e la conoscenza si perfeziona nell'azione. Questa visione equilibrata fornisce un fondamento teorico robusto per l'ideale del liberato in vita, che non si ritira dal mondo, ma vi opera con saggezza.
Vasistha insegna a Rama: la liberazione il non-attaccamento
Il saggio Vasiṣṭha insegna a Rāma il concetto di jīvanmukta, l'individuo che raggiunge la liberazione (mukti) pur vivendo in un corpo fisico [3, 8, 15, 20]. Tale figura è l'ideale supremo. Il jīvanmukta non è vincolato dal karma passato accumulato in vite precedenti (sañcita-karma), che è stato "bruciato dal fuoco della conoscenza" [20]. Allo stesso modo, non crea nuovo karma (āgāmi-karma) perché agisce nel mondo senza il senso dell'io che agisce (kartṛtva) [20]. La sua esistenza fisica è sostenuta unicamente dal prārabdha-karma, il karma che ha già iniziato a manifestarsi e che deve esaurirsi [20]. L'idea è illustrata dall'analogia classica del cacciatore che scaglia una freccia: anche se si rende conto che il suo bersaglio non è una tigre ma una mucca, la freccia ormai scoccata seguirà la sua traiettoria fino a colpire l'animale [20]. Allo stesso modo, il corpo del jīvanmukta continua a vivere finché l'impulso del prārabdha-karma non si esaurisce.
La sintesi dell'intera filosofia è racchiusa in una delle frasi più significative dello Yoga Vāsiṣṭha: "Oh Rāma, agisci come se tutto quello che fai comportasse un mondo di differenza, pur sapendo che tutto quello che fai non fa alcuna differenza per il mondo" [3]. Questo aforisma non è la perfetta espressione della tensione tra l'azione etica nel mondo (karma yoga) e la consapevolezza metafisica che il mondo e l'azione stessa sono un'illusione della Coscienza [8]. Il liberato in vita non si ritira in apatia, ma agisce con totale impegno e compassione, pur mantenendo una mente distaccata dal risultato. L'azione non è un mezzo per ottenere un risultato personale, ma un'espressione spontanea e disinteressata della sua natura liberata. La sua vita è un "gioco" (līlā) della Coscienza che si manifesta nel mondo.
Questo approccio si basa sul concetto fondamentale di non-attaccamento, o vairāgya. È cruciale distinguere il non-attaccamento dall'apatia o da un distacco emotivo insensibile. L'apatia è l'indifferenza che porta all'inazione, la non-attaccamento è l'azione piena di cuore che accetta il risultato, sapendo che non si può controllare l'esito [21]. È l'opposto dell'accumulazione fisica e mentale di oggetti, idee e desideri, un principio noto anche come aparigraha, il quinto yama negli Yoga Sūtra di Patañjali [22, 23]. La serenità del jīvanmukta è radicata nella comprensione che l'attaccamento a persone, ideali o risultati specifici è la causa della sofferenza [21].
L'ideale del non-attaccamento è presente in modo trasversale in diverse tradizioni filosofiche indiane, pur essendo affrontato con metodologie e priorità distinte. Di seguito, si propone una tabella comparativa per illustrare le sfumature concettuali nei tre testi canonici: gli Yoga Sūtra, la Bhagavad Gītā e lo Yoga Vāsiṣṭha.
Il Simbolismo di Vasiṣṭhāsana
L'analisi filosofica e mitologica trova il suo culmine nel simbolismo della postura stessa. Vasiṣṭhāsana è una posizione di "potenza" ed "equilibrio", e l'analisi anatomica conferma che rafforza braccia, spalle, addome e gambe. Il valore profondo della posa risiede nel suo significato allegorico.
Il nome Vasiṣṭha, che significa "il più saggio" o "il più eccellente" [4, 5], è direttamente legato alla forma fisica della postura. Mantenuta su una mano e un piede, la posa proietta il corpo verso l'alto, con un braccio teso verso il cielo [3]. Questa elevazione fisica incarna l'ascesa spirituale e il tentativo di unione con il divino. Il corpo proteso verso l'alto rappresenta la ricerca della saggezza, la stessa che Vasiṣṭha ha impartito a Rāma.
La postura di Vasiṣṭhāsana non solo rappresenta l'ascensione, ma anche un profondo simbolismo geometrico la formazione di un "triangolo perfetto" [3]. Il triangolo è una figura archetipica di grande importanza nella filosofia indiana [30]. I triangoli, con il loro triplice carattere, rappresentano le tre forze della natura (tamas, rajas e sattva) e le tre divinità della Trinità induista (Brahmā il creatore, Viṣṇu il preservatore e Śiva il distruttore) [31]. Nella postura, la base a terra (una mano e un piede) simboleggia la stabilità nel mondo materiale, mentre il vertice che si protende verso l'alto rappresenta l'unione dell'individuo con la Coscienza universale.
La stabilità precaria richiesta per mantenere la posa del plank laterale simboleggia la condizione umana in un mondo in perenne mutamento [29]. La capacità del praticante di trovare l'equilibrio e la calma interiore in questa situazione di tensione riflette la stabilità mentale del jīvanmukta, che, sebbene immerso nelle "coppie di opposti" come il successo e il fallimento, il piacere e il dolore [8], rimane imperturbabile. La postura diventa così un atto di incorporazione: il corpo sperimenta la tensione e il disequilibrio, ma la mente rimane stabile e non-attaccata, in perfetta risonanza con gli insegnamenti di Vasiṣṭha.
Conclusione: La Postura come Meditazione in Azione
L'analisi di Vasiṣṭhāsana rivela una profonda e sottile connessione tra mito, filosofia e pratica corporea. La postura, sia essa antica o moderna nelle versioni oggi più praticate, non è una ginnica isolata, ma il punto di convergenza di secoli di pensiero religioso e spirituale. Essa incarna la figura del saggio Vasiṣṭha, il cui insegnamento ha trasformato un principe apatico in un re illuminato, e i principi filosofici del non-attaccamento e del jīvanmukti descritti nel trattato a lui attribuito.
La pratica di Vasiṣṭhāsana può essere interpretata come una forma di meditazione in azione. L'equilibrio precario richiesto simboleggia la nostra esistenza in un mondo effimero, mentre la stabilità della posa, una volta raggiunta, riflette la serenità interiore del jīvanmukta [29]. La posizione ci invita a coltivare la saggezza, a distinguere tra l'effimero e l'eterno, e a vivere nel mondo con pienezza, mantenendo un cuore non-attaccato e una mente serena [8, 21]. In questo senso, lo yoga moderno, quando praticato con una consapevolezza del suo profondo contesto storico-religioso, si rivela non una mera ginnastica, ma un potente strumento di realizzazione spirituale.
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