La ragione della guerra nella Bhagavadgita

luglio 15, 2020


di Marco Sebastiani  

Le riflessioni filosofiche della Bhagavadgita sono incredibilmente attuali. Qualcuno potrebbe dire perché trattano i temi eterni intorno ai quali si interroga l'uomo, ma, più probabilmente, lo sono, per chi nasce in una cultura europea, perchè trova un sostrato paragonabile a quello dei poemi omerici e della filosofia greca. Questo sostrato non è ascrivibile all'identità umana, sarebbe una semplificazione che ci porrebbe fuori dal dominio della storia, assecondando quelle scuole, ormai datate, che hanno ricercato il ripetersi di temi analoghi nei miti e nelle religioni, in modo meccanico e acritico. Questo sostrato assume caratteristiche tanto peculiari in una minoranza di culture, seppure dominanti in molte regioni del mondo. Queste culture hanno antenati comuni e sono le culture indo-europee. Interrogarsi sull'origine della condizione umana, del dolore, sull'etica dell'agire come uomini, e rispondere con le categorie della logica, del destino e della devozione è un percorso che ha dei tratti comuni nell'epica e nelle opere filosofiche indo-europee. Ripercorrere gli studi di un'indagine comparativa è ovviamente al di fuori della portata di questo articolo, vogliamo qui evocarne solamente la suggestione. Il presente articolo prende altresì le mosse su di un altro fronte: il senso e le motivazioni filosofiche della guerra di Kurukshetra descritta nella Bhagavatgita.
Un tema ricorrente nella Bhagavadgita è il perchè sia necessaria la guerra. Questo aspetto viene sviscerato sotto molti aspetti e punti di vista. Non dobbiamo mai dimenticare che la Gita faccia parte di un poema ben più ampio e strutturato, nel quale si trattano i retroscena e gli antefatti, in cui vengono narrate le storie personali, presentati i personaggi, ma soprattutto, in cui il racconto viene portato temporalmente oltre la battaglia, ad osservarne e valutarne le conseguenze. La Gita è infatti una parte della sesta sezione, o parvan, delle 18 che compongono la Mahabharata, sezione chiamata Bhīṣmaparvan, libro dedicato a Bhisma, il precettore di tutti i principi sul campo di battaglia e personaggio nodale della narrazione, dall'inizio alla fine. Di questa sezione il terzo capitolo è appunto "il canto del beato" la Bhagavat Gita.
Nella Gita il motivo della guerra appare piuttosto evidente. La fazione dei principi Pandava subisce tali torti, per i quali è inevitabile giungere a dare battaglia alla fazione contrapposta, i Kaurava. Mille sono i risvolti e ancora di più le volte in cui i protagonisti si interrogano se sia veramente giusto andare in contro all'atrocità della guerra, per far prevalere la giustizia, e altrettante volte la risposta, da parte di tutti i soggetti interrogati, Krishna in testa, è la stessa: "si, è giusto ed è il volere del destino".
 
La stessa presenza di Krishna sul campo di battaglia segue questo ordine delle cose. Vishnu ritorna sulla terra, si incarna in un avatar, ogni qual volta il dharma, la legge universale, la giustizia, è in un momento disperato e sembra soccombere a vantaggio dell'adharma, il caos, l'ingiustizia, il male. L'elenco degli avatar di Vishnu è soggetto ad alcune variazioni, a seconda delle tradizioni, ma c'è una uniformità di base che vede una linea continua tra il primo, matsya, il pesce, fino a Rama, generalmente il settimo, poi Krishna, l'ottavo, e infine Kalki, il decimo, che deve ancora giungere, come trattato nel nostro precedente articolo [Mito e yoga: vatayanasana, la posizione del cavallo ]

Come dicevamo, i rapporti di causa ed effetto che generano la guerra di Kurukshetra, le sue ragioni e le sue conseguenze, sono molto approfondite in tutta la Mahabharata. L'opera è meravigliosa in ogni sua parte e in ogni aneddoto, ma una delle sezioni più belle dell'opera, a modesto giudizio di chi scrive è l'undicesima, Strīparvan, il libro dedicato alle donne, strī, appunto. La guerra è ormai finita, ci sono anche stati dei colpi di scena immediatamente successivi ad essa, ed il quadro di quanto accaduto è chiaro. Il capitolo è dedicato alle donne in quanto sono tra le poche categorie ad essere sopravvissute, non avendo partecipato alla guerra. Tra gli uomini si sono salvati i cinque fratelli pandava, che hanno però perso tutti i figli, Krishna, Dhritarashtra, il re cieco padre dei kaurava, i rishi, i bramini, e pochissimi altri personaggi. La guerra è stata il cosiddetto "bagno di sangue", sono morti praticamente tutti. In molti passaggi dell'opera, a descrizione dei 18 giorni di battaglia, si pone l'accento su questo aspetto. Il terreno diviene fango rosso, mischiandosi con il sangue; macerie, ossa di uomini e animali sono sparse ovunque, per chilometri; presagi funesti si ripetono puntualmente, salvo pochissime eccezioni,  latrati di animali, boati, eclissi, voli di avvoltoi, eccetera; i morti si contano a centinaia di migliaia, a milioni, da entrambe le fazioni.
Inoltre, i sopravvissuti, Krishna incluso, moriranno di li a poco, a causa di una maledizione inferta proprio in questo capitolo, ma più propriamente, come evidenziato fin da subito, a causa del destino. Questo fatto pone un poco in bilico l'interpretazione precedente esposta della guerra: come mai, se quella dei pandava era la fazione benedetta dalla giustizia e dal signore supremo, alla fine soccombono tutti? Sicuramente la morte del corpo fisico non è che un passaggio verso una nuova vita, ritornando sulla terra o, nel caso degli kshatrya morti valorosamente, verso la liberazione finale. Questa tesi è sposata in innumerevoli passaggi, ma perchè si rende necessaria una carneficina di questa portata? Alla fine, i protagonisti delle due fazioni hanno una sorte simile. Non c'è questa chiara distinzione tra bene e male, tra virtuosi e peccatori, tra vincitori e vinti. E ancora, se i nostri cinque principi pandava, con a capo Yudhishthira, nientemeno che il figlio del Dharma, e Krishna al fianco, sono i predestinati alla vittoria, perchè in tutti gli scontri cruciali tra i protagonisti, sono costretti ad inganni o sotterfugi per prevalere? (Da sola questa seconda domanda potrebbe essere il tema di uno studio più approfondito).
Un poco di luce viene gettata su queste domande dalla sezione che stiamo per analizzare più in dettaglio.
I sopravvissuti si ritrovano a discutere quanto accaduto, a offrirsi conforto tutti insieme tra le parti, ed a cercare di darsi pace, ognuno con i propri dolori e le proprie convinzioni. C'è un passaggio che si vuole portare all'attenzione. I grandi saggi sono nelle stanze di Dhritarashtra, il re cieco, succube del figlio Duryodhana ormai morto così come tutti e cento i suoi fratelli. La fazione dei Pandava, che ha prevalso, è generosa nei confornti del vecchio re e lo ospita nella nuova corte, ma egli è disperato per aver perso tutto, i figli e il regno, e dice di volersi togliere la vita. Il re Ditarashtra è un protagonista, ma una persona di poco spessore, poco rispettato dal figlio, che al contrario è un grande personaggio negativo, e per questo il discorso, come artificio narrativo, prende spesso le mosse dalle sue mediocri dichiarazioni, facili da controbattere con i giusi argomenti e quindi utili allo sviluppo del discorso. E' l'interlocutore che permettere di esprimere la filosofia dell'opera, in forma di dialogo, come nei migliori discorsi filosofici. Dhritarashtra muove le osservazioni che possono essere dell'uomo comune, nella sua banalità. Tutta l'opera è costellata da धृतराष्ट्र उवाच, dhṛtarāṣṭra uvāca, Dritarashtra disse, che è infatti anche l'incipit della Gita.
In molti cercano di tranquillizzare il re, ma ad un ceto punto prende la parola Vyasa. Vyasa non è un rishi qualunque, un saggio illuminato tra gli altri, egli è l'autore stesso della Mahabharata, e in tutte le occasioni che compare, spesso materializzandosi dal nulla e poi allo stesso modo scomparendo, le sue parole hanno un peso speciale. Non è la voce narrante, ruolo egregiamente svolto da Sanjaya e altri, egli è la massima autorità, che chiarisce il fine ultimo, è il verbo. Per inciso Vyasa è anche il compilatore dei Veda, i testi shruti, uditi, egli è quindi colui che ha udito la parola divina, è un mestro immortale, chiranjivi, che ha familiarità con il mondo celeste e con i Deva, così come con il mondo terreno e gli eroi. Anche nel paragrafo che riportiamo egli riferisce le parole udite direttamente dagli dei:"Quanto stabilito dagli dèi, fu udito da me personalmente,
e te lo racconterò...". Sarebbe interessante valutare in dettaglio il peso delle sue parole nell'opera in relazione a quelle di Krishna, altra massima autorità, ma probabilmente, a ben vedere, hanno un ascendente ancora maggiore. 

Ecco le osservazioni di Vyasa ed i suoi ricordi sulla guerra, le ragioni di questa e le conseguenze:                      
 
MB XI.8.11-39

Udite le parole di Dhṛtarāṣṭra, il potente Vyasa, lo scuro nato su un'isola, addolorato per la sofferenza del suo interlocutore causata dalla morte del figlio, a questi diceva le seguenti parole:
“Oh Dhṛtarāṣṭra dalle forti braccia, ascolta quanto ti dirò.
Hai appena udito le parole di Vidura, saggio esperto delle leggi universali, il dharma, e del senso della vita, l'artha,
Non è rimasto nulla che tu debba ancora sapere, oh Dhṛtarāṣṭra tormento dei nemici. Tu conosci con esattezza l'impermanenza dei mortali,
e quanto sia incerto il mondo dei viventi,
e come ogni situazione sia effimera,
e ancora, come la vita finisca immacabilmente con la morte. Perché allora ti addolori, o bhārata?
Davanti ai tuoi occhi, o re dei re, furono le ragioni del sorgere della guerra,
di cui tuo figlio fu la causa. Questa fu però condotta dal peso del fato,
dovendo verificarsi inevitabilmento la distruzione dei kuru, oh sovrano.

Perché piangi quei prodi che hanno raggiunto la suprema meta?
Vidura, la grande anima,  conoscendo l'inevitabile epilogo, oh Dhṛtarāṣṭra  dalle forti braccia,  si è impegnato con ogni mezzo verso la pace, ma nessun essere vivente poteva fermare questo percorso tracciato dal destino, neanche impegnandosi per lungo tempo, questa è la mia opinione.
 
Quanto stabilito dagli dèi, fu udito da me personalmente,
e te lo racconterò affinché tu possa trovarvi conforto e certezze.
Un tempo, io andai veloce e riposato alla dimora di Indra.
Là vidi allora riuniti tutti gli abitanti del cielo,
e anche tutti i ṛṣi divini a cominciare da Nārada.
 
Là io vidi pure la Terra, nella sua personificazione, oh signore dei regni,
venuta alla presenza degli dèi per un suo problema.
Dunque la Terra diceva agli dèi riuniti:
' Voi dovete fare per me quanto un tempo
avete promesso o beatissimi, quando eravamo ancora nella dimora di Brahmā.
Ciò deve essere rapidamente approntato.'

Udito quanto esposto, Viṣṇu, venerato nel mondo,
diceva, ridendo, queste parole alla Terra nell'assemblea divina:

' Il maggiore dei cento figli di Dhṛtarāṣṭra,
si chiama Duryodhana. Egli compirà quanto dovuto.
Attraverso questo sovrano della terra tu verrai soddisfatta.
A causa sua i prìncipi della terra, riunendosi a kurukṣetra,
si uccideranno reciprocamente, attaccandosi con armi potenti.
Quindi, con la guerra, tu oh dea, sarai alleviata del tuo carico,
torna rapida al tuo compito di sostenere i mondi, oh virtuosa.'

Questo tuo figlio, oh re, è nato sotto l'influsso di Kali, nel ventre di Gāndhārī, per compiere la distruzione del mondo.
Egli è arrogante, sconsiderato, iracondo, arduo da trattare,
e i suoi fratelli, per il disegno del fato, sono nati simili a lui.
Ugualmente il suo zio materno è Śakuni, e Karṇa è il suo migliore amico.
E' nato circondato da questi sovrani per perpetrare questa strage sulla terra. Anche Nārada conosce questo destino in verità,
i tuoi figli sono periti a causa delle loro offese, oh signore della terra,
non dolerti per loro, non vi è motivo di dolore.
I pāṇḍava non vi fecero la minima offesa, oh bhārata.
I tuoi figli, dai quali questa terra fu distrutta,
sono di animo malvagio.
Nārada, che sia benedetto, una volta ha rivelato ciò
a Yudhiṣṭhira, senza ombra di dubbio, nel corso del sacrificio rājasūya:

'I pāṇḍava e i kaurava, scontrandosi reciprocamente,
moriranno o figlio di kuntī, compi il tuo dovere.'
Udite le parole di Nārada, i Pāṇḍava se ne dolevano.
Ti ho rivelato questo eterno segreto divino nella sua completezza,
affinché tu ponga fine al tuo dolore, e abbia compassione per la tua vita, oh potente.
Dovresti anche dimostrare affetto verso i figli di Pāṇḍu, sapendo che tutto fu stabilito dal fato.
Questa motivazione, oh forti braccia, fu da me udita una volta,
ed è stata anche raccontata a Yudhistira, il dharmarāja, durante il supremo sacrificio rājasūya.
Essendo stato informato in segreto, il figlio del Dharma si è sempre impegnato a cercare la pace coi kaurava, evitando la guerra, ma il destino fu più forte.
Sappi, oh re, che non poteva essere evitato in nessun modo.
L'opera del Signore della morte non poteva essere evitata da nessun essere vivente, celeste o terreno.
Tu sei fedele al dharma, oh bhārata, e sei saggio,
ma sei confuso, pur conoscendo la meta ultima degli esseri viventi.
 
Il discorso è chiaro, Vyasa tranquillizza Dritarashtra, basandosi su due concetti, gli stessi che ricorrono molte volte nell'opera. Il primo è che la morte sia inevitabile e sia solamente un passaggio di transizione dell'anima immortale. Il secondo è che ciò che viene delineato dal destino non può essere evitato. L'elemento nuovo che colpisce l'immaginazione è il perchè il destino abbia preso questa piega.
Vyasa riferisce di aver udito un discorso, nell'assemblea degli dei, tra Vishnu e Prithivi, l'immensa, la deva personificazione della terra. Prithivi, पृथिवी, non è un personaggio di secondo ordine, ma un avatar di Lakshmi, la moglie di Vishnu stesso. Quindi tutta la questione è ascrivibile infine come la volontà ultima del Signore onnipotente.  Ma di quale questione si parla? La Terra ricorda agli dei che questi avevano promesso nella notte dei tempi, una certa questione, che a lei sta a cuore, una questione che avrebbe alleggerito un suo fardello. Vishnu spiega in cosa consiste questa promessa: i principi della terra devono sterminarsi gli uni con gli altri, attaccandosi con le armi che sono state date loro dai deva stessi.
Alcune traduzioni cedono ad una suggestione ecologista ante litteram, secondo cui la terra, sfruttata in modo eccessivo, si ribelli. Questa visione è divertente, ma è estraneoa alle categorie proprie della mitologia Arya.
Viene affermato invece in modo forte quale sia la volontà di Vishnu: i principi della terra devono morire tutti. Lui stesso partecipa al massacro, incarnando il suo avatar Krishna presente per questo scopo tra i re. E' come se a conlusione di un'era, sappiamo che la Mahabharata narra la fine di uno yuga e l'inizio del successivo, lo yuga kali, lo yuga sfortunato,  si volessero azzerare le forze in campo, sia quelle virtuose che quelle negative. Questa visione è anche in linea con la morte di Krishna stesso, descritta nell'opera. Krishna è vittima di una maledizione, a cui non si ribella, perchè è detto, anche questa è il volere del destino, cioè in ultima analisi il suo volere. Per questo motivo si ritira nella foresta in meditazione e si lascia uccidere da un cacciatore con una freccia su di un piede. Morte più banale del grande re, condottiero sul campo di battaglia nel mezzo dell'azione tra armi mistiche, milioni di frecce, elefanti da guerra e carri da combattimento, non poteva delinearsi. Ma una morte così accidentale sottolinea proprio l'accettazione del compimento del destino.
Altri deva partecipano a questo destino, Duriodana è detto, per la prima volta, essere emanazione di Kali, a sua volta collegata con Shiva e con la distruzione, ma una distruzione necessaria all'equilibrio e alla successiva creazione. In un altro episodio, uno dei più tragici del poema, Shiva ha armato personalmente la mano di colui che ucciderà a tradimento i figli dei principi Pandava, con una spada invincibile, usata di notte il giorno dopo la fine della guerra. Fuori dal contesto precedentemente illustrato questo dettaglio appare inspiegabile.
L'orizzonte etico della mahabharata appare trascendere i concetti di bene e male, i buoni pandava compiono atti giudicati ingannevoli da molti saggi, come precedentemente detto. Allo stesso modo tra le fila dei kaurava ci sono molti combatteti virtuosi, primo tra tutti Bhishma, forse il personaggio più marcatamente positivo in tutto il racconto, dalla sua condotta dell'esercito kaurava sino alla sua morte, giunta per suo stesso volere, su di un letto di frecce [vedi l'immagine di copertina del presente articolo NdR]. La linea tra bene e male è molto flessibile, perchè bene e male sono superati, entrambe le fazioni, così come tutte le azioni di tutti i soggetti coinvolti, concorrono allo stesso unico scopo: la distruzione dei prìncipi e degli eserciti. Questa distruzione è altresì il volere ultimo, prima di un nuovo ciclo, proprio come i mondi vengono periodicamente distrutti dall'occhio di Shiva, insieme con Kali la signora del tempo, e ricreati poi dall'ombelico di Vishnu.

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