Bhagavad Gita Ia parte II cap.: la logica liberatrice

giugno 05, 2019



traduzione di Vyasa Sante*
testo e commento a cura di Marco Sebastiani

Il secondo capitolo della Gita ben riassume e cristallizza l'intero sistema dell'opera. L'inizio del discorso di Krishna in risposta alle esitazioni di Arjuna è anche un riassunto di tutto il sistema di credenze basilari induista sino ai nostri giorni. Avevamo lasciato Arjuna sul campo di battaglia, in preda allo sconforto per l'imminente battaglia e le sofferenze e le ingiustizie che ne sarebbero derivate. Arjuna solleva in realtà il problema della vita e  dell'azione umana. Chi sono, cosa è il mondo e perchè esiste, come è possibile conciliare la vita sociale nel mondo e la vita spirituale, queste sono le domande che si è posto. Questo problema darà modo a Krishna di esporre le basi del suo volere, della sua filosofia, secondo la quale l'azione deve provenire da un nuovo equilibrio dell'essere ed andare verso la conoscenza. Nel primo capitolo viene descritto lo sconforto tipicamente umano di chi sia costretto a guardare in faccia lo spettacolo dell'universo nella sua cruda realtà. Come è possibile riconciliarsi con questi aspetti?
La battaglia di Kurushetra rappresenta la crudeltà della natura, dell'universo, che procede attraverso morti, ingiustizie e combattimenti. Krishna rappresenta invece la via interiore dello spirito, per superare tutto questo. La nostra vita è sottoposta alla stessa tensione tra queste due forze. Krishna illustra nel secondo capitolo la summa del suo messaggio per attraversare indenni il mondo e per elevare il proprio spirito al massimo grado.

Il secondo capitolo della Gita è una pietra miliare nel pensiero indiano, vengono espressamente messi in dubbio il valore ed il fine delle sacre scritture, Veda ed Upanishad, e viene proposta una nuova interpretazione di queste, superando il mero mezzo rituale e soprattutto superando il fine materiale dei sacrifici. Ma non anticipiamo questi temi, lasciamo che a parlare sia l'opera.


Questo secondo capitolo della Gita è esplicitamente diviso in due parti. Nella prima Krishna controbatte i dubbi di Arjuna con la semplice logica, o, per l'esattezza, con le basi della corrente filosofica indiana denominata Sankhya, uno dei cinque sistemi, o darsana, indiani. Per maggiori informazioni a riguardo confronta l'articolo: Lo yoga e le altre 5 darsana indiane. Il titolo del capitolo, "Sankhya Yogah", è quindi intraducibile letteralmente, e viene reso in molti modi: la fede del guerriero ariano, la summa della Gita, lo yoga della conoscenza speculativa, etc. etc. Tutte queste versioni sono a mio giudizio valide e rendono il fatto che in questo secondo capitolo sia illustrata da Krishna una filosofia molto importante per tutto il pensiero indiano antico e moderno.
Nella seconda parte di questo capitolo Krishna compie un ulteriore passo in avanti e inizia a controbattere i dubbi di Arjuna con i principi del proprio Yoga, i principi che porteranno alla riunificazione con lo spirito assoluto, il Brahman, lo Yoga dell'azione. .
Questa divisione dicevamo essere esplicita infatti al verso 39 Krishna afferma che quanto espresso sin qui è la conoscenza trasmessa dal Sankhya, mentre adesso esporrà quanto impartisce lo Yoga.



capitolo II
Sankhya Yogah
सांख्य योग:

La filosofia dello yoga di Krishna

Bg. 2.1

सञ्जय उवाच
तं तथा कृपयाविष्टमश्रुपूर्णाकुलेक्षणम् ।
विषीदन्तमिदं वाक्यमुवाच मधुसूदनः ॥ १ ॥

sañjaya uvāca
taṁ tathā kṛpayāviṣṭam
aśru-pūrṇākulekṣaṇam
viṣīdantam idaṁ vākyam
uvāca madhusūdanaḥ

1. Vedendo Arjuna così sopraffatto dalla pietà,  tanto sgomento e agitato, con gli occhi pieni di lacrime, Madhusudana, Krishna, si rivolge a lui con le seguenti parole. 
Il Beato Signore disse:


Bg. 2.2

श्री भगवानुवाच
कुतस्त्वा कश्मलमिदं विषमे समुपस्थितम् ।
अनार्यजुष्टमस्वर्ग्यकीर्तिकरमर्जुन ॥ २ ॥

śrī-bhagavān uvāca
kutas tvā kaśmalam idaṁ
viṣame samupasthitam
anārya-juṣṭam asvargyam
akīrti-karam arjuna

2. Da dove nasce questo turbamento che s’impadronisce di te proprio nel momento del pericolo? Questa viltà è indegna per un Ariano, un nobile, non conduce al cielo e ti porta solo disonore.

Si delinea subito quale sia l'opinione di Krishna in merito al comportamento di Krishna emerso nel primo capitolo. Avremmo potuto pensare che il divino maestro potesse incoraggiare il discepolo alla bontà, alla santità, a separarsi dalle vie del mondo. Di fronte alla sua avversione per l'imminente massacro, al sentimento di dolore e di peccato, al presentimento di cattivi risultati, di cattivo karma di un'azione ritenuta malvagia, il maestro risponde invece con severo biasimo.
Gli Ariani erano storicamente il popolo che aveva invaso la Valle dell'Indo diversi secoli prima, imponendo la propria visione del mondo, un mondo rigidamente diviso in gruppi sociali e con una spiccata indole guerriera. Il parallelo con i fatti storici è qui molto evidente, Krishna dice che mostrare debolezza nel momento della difficoltà è indegno per un nobile guerriero ariano. Non dobbiamo però commettere l'errore di immaginare il discorso secondo i parametri delle società guerriere a noi più vicine, un Romano, ad esempio, avrebbe potuto pronunciare parole simili, ma disprezzando qualsiasi complicazione filosofica. Siamo qui molto lontani anche dall'epos germanico o alle categorie dell'Iliade. L'insegnamento della Gita è radicato nella fede indiana, non dimentichiamolo e lo spirito indiano ha sempre situato la compassione fra i più alti valori. Questa compassione spinge il guerriero ariano ad aiutare l'oppresso e il vinto, il santo uomo a dedicare la propria vita all'amore e alla devozione, la divinità ad essere sempre giusta e contraria all'oppressione. Non è però questa compassione che spinge Arjuna a rifiutare il proprio dovere, ma il sentimento di impotenza e la pietà verso se stesso, un ritirarsi di fronte alla sofferenza che l'azione dovrà imporgli. Per un ariano, per un nobile indiano, la pietà verso se stessi è un sentimento vile.


Bg. 2.3
क्ल‍ैब्यं मा स्म गमः पार्थ नैतत्त्वय्युपपद्यते ।
क्षुद्रं हृदयदौर्बल्यं त्यक्त्वोत्तिष्ठ परन्तप ॥ ३ ॥

klaibyaṁ mā sma gamaḥ pārtha
naitat tvayy upapadyate
kṣudraṁ hṛdaya-daurbalyaṁ
tyaktvottiṣṭha paran-tapa

3. Oh figlio di Pritha, non abbandonarti a una debolezza così umiliante, non ti si addice, allontana da te questa viltà e alzati, oh Terrore dei nemici.

Dobbiamo pensare che anche nei casi in cui il pensiero espresso sembra ripetersi, in realtà sono sempre presenti elementi peculiari sui quali si vuole fermare l'attenzione. Ogni singolo verso della Bhagavad Gita esprime un concetto nuovo o diverso dai precedenti, non ci sono ripetizioni, questa è una nota stilistica importante. La pietà verso gli altri potrebbe essere una qualità nelle persone meno elevate di Arjuna, per chi non appartiene alla stirpe dei guerrieri, ai quali potrebbe portare una mitigazione della durezza e della crudeltà. Ma la vita del nostro eroe è un percorso di elevazione e non spetta al suo capriccio, al suo desiderio o alle sue passioni decidere se indietreggiare o avanzare all'apparente catastrofe.

Bg. 2.4
अर्जुन उवाच
कथं भीष्ममहं संख्ये द्रोणं च मधुसूदन ।
इषुभिः प्रतियोत्स्यामि पूजार्हावरिसूदन ॥ ४ ॥

arjuna uvāca
kathaṁ bhīṣmam ahaṁ saṅkhye
droṇaṁ ca madhusūdana
iṣubhiḥ pratiyotsyāmi
pūjārhāv ari-sūdana

Arjuna disse:
4. Come potrei, oh Madhusudana, scagliare le mie frecce contro Bhisma e Drona che sono per me dei venerabili maestri?

Bg. 2.5
गुरूनहत्वा हि महानुभावान्
श्रेयो भोक्तुं भैक्ष्यमपीह लोके ।
हत्वार्थकामांस्तु गुरूनिहैव
भुज्ज‍ीय भोगान्‍रुधिरप्रदिग्धान् ॥ ५ ॥

gurūn ahatvā hi mahānubhāvān
śreyo bhoktuṁ bhaikṣyam apīha loke
hatvārtha-kāmāṁs tu gurūn ihaiva
bhuñjīya bhogān rudhira-pradigdhān

5. È meglio vivere mendicando piuttosto che uccidere degli stimati maestri. Anche se ora loro combattono per avidità di ricchezze, se li uccidessi, le mie conquiste e le mie gioie sarebbero macchiate di sangue.

Bg. 2.6
न चैतद्विद्मः कतरन्नो गरीयो
यद्वा जयेम यदि वा नो जयेयुः ।
यानेव हत्वा न जिजीविषाम-
स्तेऽवस्थिताः प्रमुखे धार्तराष्ट्राः ॥ ६ ॥

na caitad vidmaḥ kataran no garīyo
yad vā jayema yadi vā no jayeyuḥ
yān eva hatvā na jijīviṣāmas
te ’vasthitāḥ pramukhe dhārtarāṣṭrāḥ

6. Non so proprio se sia meglio essere sconfitti o vittoriosi. Se li uccidiamo ci passerà la voglia di vivere. Eppure sono proprio loro, i figli di Dhritarashtra, che ci stanno di fronte pronti a combatterci; ma la loro morte ci farà odiare la vita.

Arjuna tenta ancora una volta di giustificare il suo rifiuto a combattere, in verità dettato dalla parte meno elevata del suo essere, o meglio, dalla parte non ancora elevata. Krishna ha proprio il compito di fare giungere il suo cammino alle massime vette ed inizia proprio da questi sentimenti di bassa caratura. Arjuna dice di non poter gioire di gioie macchiate di sangue, ma nessuna gioia dovrà in verità turbare il suo essere, cosa ci dovrebbe essere da gioire per le ricchezze conquistate, per i piaceri che ne derivano o per il potere ricavato? queste sono emozioni valide per i mercanti o per persone di rango inferiore. Anche uccidere i suoi guru, i suoi maestri potrebbe sembrare ragionevolmente un'azione di una violenza inaccettabile, ma non è la ragione che deve guidare la volontà di Arjuna.


Bg. 2.7
कार्पण्यदोषोपहतस्वभावः
पृच्छामि त्वां धर्मसम्मूढचेताः ।
यच्छ्रेयः स्यान्निश्‍चितं ब्रूहि तन्मे
शिष्यस्तेऽहं शाधि मां त्वां प्रपन्नम् ॥ ७ ॥

kārpaṇya-doṣopahata-svabhāvaḥ
pṛcchāmi tvāṁ dharma-sammūḍha-cetāḥ
yac chreyaḥ syān niścitaṁ brūhi tan me
śiṣyas te ’haṁ śādhi māṁ tvāṁ prapannam

7. La mia vera natura è impedita dalla compassione, sono confuso su qual sia il mio dovere. Per questo motivoti  chiedo  cosa sia meglio per me. Rispondimi con certezza. Ora mi affido a
Te, sono tuo discepolo, istruiscimi.

Finalmente Arjuna cessa di portare avanti discorsi di giustificazione e ipocrisia e compie le due azioni che lo porteranno ad iniziare il sentiero di perfezione spirituale. In primo luogo riconosce la propria condizione di ignoranza, di assenza della verità, La debolezza ha offuscato il suo dharma, la legge universale del suo ruolo nel mondo. In seconda istanza si pone nelle mani del suo divino maestro. Questo è l'unico maestro a cui dovrà dare ascolto, questo è l'inizio del percorso di riunificazione dello spirito che lo potrà portare alla perfezione.
Arjuna non è però solido nel suo essere e nella sua volontà, simboleggando l'indecisione tipicamente umana, presente anche quando sappiamo esattamente quale sia la via da perseguire.

Bg. 2.8
न हि प्रपश्यामि ममापनुद्याद् -
यच्छोकमुच्छोषणमिन्द्रियाणाम् ।
अवाप्य भूभावसपत्‍नमृद्धं
राज्यं सुराणामपि चाधिपत्यम् ॥ ८ ॥

na hi prapaśyāmi mamāpanudyād
yac chokam ucchoṣaṇam indriyāṇām
avāpya bhūmāv asapatnam ṛddhaṁ
rājyaṁ surāṇām api cādhipatyam

8. Non riesco a scorgere niente che possa dissipare quest’angoscia che offusca i miei sensi, neppure se dovessi ottenere un prospero dominio senza rivali sulla Terra, o perfino una sovranità tra gli esseri Celesti.

Bg. 2.9
सञ्जय उवाच
एवमुक्त्वा हृषीकेशं गुडाकेशः परन्तपः ।
न योत्स्य इति गोविन्दामुक्त्वा तूष्णीं बभूव ह ॥ ९ ॥

sañjaya uvāca
evam uktvā hṛṣīkeśaṁ
guḍākeśaḥ paran-tapaḥ
na yotsya iti govindam
uktvā tūṣṇīṁ babhūva ha

9. Arjuna, il Tormento dei nemici, dopo aver così parlato sul luogo di battaglia, a Hrishikesa, disse ancora: io non combatterò. Poi divenne silenzioso.

La volontà di Arjuna, come dicevamo, traballa in questo momento, aveva chiesto consiglio ed aveva affermato di rimettersi al volere di Krishna, ma, ancora una volta, prima che il suo divino consigliere parli, crolla sotto il peso del suo offuscamento, affermando la volontà di non combattere, seppure si renda conto di come questa sia fallace. E' consapevole della sua debolezza, ma cede ad essa.

Bg. 2.10
तमुवाच हृषीकेशः प्रहसन्निव भारत ।
सेनयोरूभयोर्मध्ये विषीदन्तमिदं वचः ॥ १० ॥

tam uvāca hṛṣīkeśaḥ
prahasann iva bhārata
senayor ubhayor madhye
viṣīdantam idaṁ vacaḥ

10. Oh sovrano discendente di Bharata, proseguì il racconto Sanjaya,  Krishna quindi sorridendo si rivolse all’angosciato Arjuna con queste parole.

Bg. 2.11
श्री भगवानुवाच
अशोच्यनन्वशोचस्त्वं प्रज्ञावादांश्च भाषसे ।
गतासूनगतासूंश्च नानुशोचन्ति पण्डिताः ॥ ११ ॥

śrī-bhagavān uvāca
aśocyān anvaśocas tvaṁ
prajñā-vādāṁś ca bhāṣase
gatāsūn agatāsūṁś ca
nānuśocanti paṇḍitāḥ

Il Beato Signore disse:
11. Tu ti affliggi per coloro che non meritano compassione, pronunci anche parole che sembrano di saggezza, ma sappi che il vero saggio non si affligge mai, né per i vivi né per i morti.

Ricordiamo sempre che il discorso avviene come racconto da parte del veggente Sanjaya nei confronti del re Dhitarashtra, della fazione opposta a Arjuna e Krishna, è lui appunto il sovrano discendente di Bharata. Krishna inizia il suo discorso, la sua è la parola rivelata, il vero secondo lo spirito. Inizia con un sorriso di benevolenza sul volto, raffigurato molto spesso nelle statue e nelle pitture in tutta l'India, il sorriso che mostra come Vishnu, di cui è un avatar, si preoccupi per le sorti degli uomini, a differenza di molte altre divinità indù che sono invece meno inclini al coinvolgimento terreno.
Gli elementi in cui mettere ordine rispetto al timoroso discorso di Arjuna sono molti, da dove inizia Krishna? Inizia dal controbattere le rivendicazioni prettamente egoistiche, più marcatamente di bassa levatura, per poi in seguito enunciare la legge superiore di superamento delle motivazioni egoistiche dell'azione. Il discorso del Maestro inizia partendo dall'ideologia più elevata della civiltà ariana, nella quale Arjuna è stato allevato, facendo eco ai Veda e alle Upanishad. In seguito supererà questo orizzonte spingendosi più in alto e affermando apertamente la necessità di una nuova interpretazione dei Veda. Il dovere e l'onore, fondamento della società ariana, sono le prime motivazioni di Krishna per combattere.
La persona saggia è distaccato dai sentimenti, non prova dolore né per chi vive né per chi muore e vita e morte, come sarà spiegato nel verso successivo, sono termini relativi per chi crede nella ruota del dharma, nella legge universale della reincarnazione. Le parole di Arjuna sembrano solamente sagge, ma non lo sono, al limite potrebbero esserlo per qualcuno che non occupi il suo ruolo sociale di guerriero e regnante.

Bg. 2.12
न त्वेवाहं जातु नासं न त्वं नेमे जनाधिपाः ।
न चैव नभविष्यामः सर्वे वयमतः परम् ॥ १२ ॥
na tv evāhaṁ jātu nāsaṁ
na tvaṁ neme janādhipāḥ
na caiva na bhaviṣyāmaḥ
sarve vayam ataḥ param

12. In verità, non ci fu mai un tempo in cui Io stesso non sono esistito, e anche tu e tutti questi regnanti, e mai nessuno di noi cesserà di esistere.

Questo verso, BG2.12, è molto famoso ed anche molto musicale, ben si presta ad essere cantato nel metro shloka con cui è composta la Gita. La ripetizione continua di na, non, e le molte finali di parola in am: aham, io, asam, esisto, tvam, tu, etc. rendono l'intonazione eccezionalmente cadenzata. Tutta la Gita appare bellisima quando cantata, se ne coglie maggiormente il valore poetico oltre che filosofico e morale, ma questo verso spicca in modo particolare. Tra gli altri, per chi non lo abbia mai sentito, consigliamo questo video youtube di un ispirato Swami Vishwananda per ascoltare il verso cantato in metrica. Anche il significato è particolarmente elevato. Noi tutti siamo stati, siamo e saremo sempre. Lo spirito è immortale. E' un verso universale che potrebbe riferirsi a qualsiasi credo, il punto di arrivo di qualsiasi ricerca spirituale.
In modo più concreto, affliggersi per la mancanza, per la morte, è da persona di misera levatura, tutti sappiamo che l'anima è immortale e che la morte fisica sia un semplice incidente nel corso della storia dello spirito individuale.
L'uomo saggio non si affligge per nessuna mancanza, in quanto distaccato dalle passioni e dai sentimenti, ma meno che mai si affligge per la mancanza dovuta alla morte, sapendo che la realtà è rappresentata dallo spirito eterno e non dal corpo.


Bg. 2.13
देहिनोऽस्मिन्यथा देहे कौमारं यौवनं जरा ।
तथा देहान्तरप्राप्तिर्धीरस्तत्र न मुह्यति ॥ १३ ॥

dehino ’smin yathā dehe
kaumāraṁ yauvanaṁ jarā
tathā dehāntara-prāptir
dhīras tatra na muhyati

13. Proprio come lo spirito incarnato, ha vissuto la fanciullezza, la giovinezza e la vecchiaia, così alla morte esso acquisisce un nuovo corpo. Ma l’uomo veramente saggio non è turbato da questi cambiamenti.

Colui che è saggio vede la realtà oltre l'apparenza, maya, della vita e della morte, oltre i sensi e si eleva oltre i desideri fisici ed emotivi per i quali si soffre della mancanza derivante dalla morte. La vita e la morte non sono che un lungo processo evolutivo attraverso il quale l'uomo si prepara all'immortalità e se ne rende capace. Questo è il principio di base dell'Induismo stesso. Arjuna non può nemmeno pensare di metterlo in dubbio a meno di non essere considerato alla stregua degli animali inconsapevoli.

Bg. 2.14
मात्रास्पर्शास्तु कौन्तेय शीतोष्णसुखदुःखदाः ।
आगमापायिनोऽनित्यास्तांस्तितिक्षस्व भारत ॥ १४ ॥

mātrā-sparśās tu kaunteya
śītoṣṇa-sukha-duḥkha-dāḥ
āgamāpāyino ’nityās
tāṁs titikṣasva bhārata

14. Oh Arjuna, figlio di Kunti, è il contatto dei sensi con la materia che provoca le sensazioni come il caldo e il freddo, il piacere e il dolore. Queste sensazioni hanno un inizio e una fine, non sono permanenti, accettale dunque e sopportale con fermezza.

Bg. 2.15
यं हि न व्यथयन्त्येते पुरुषं पुरुषर्षभ ।
समदुःखसुखं धीरं सोऽमृतत्वाय कल्पते ॥ १५ ॥

yaṁ hi na vyathayanty ete
puruṣaṁ puruṣarṣabha
sama-duḥkha-sukhaṁ dhīraṁ
so ’mṛtatvāya kalpate

15. L’uomo che rimane saldo, che non è turbato da questa dualità, che rimane equanime, sia nella gioia che nel dolore, è un saggio pronto per la liberazione.

Krishna inizia proprio dalle basi del sistema filosofico: la sofferenza materiale è transitoria, iniziare il cammino spirituale significa distaccarsi da queste sensazioni. Lo spirito è immortale, dicevamo, e quando raggiunge la perfezione si libera dal ciclo eterno delle rinascite, ricongiungendosi allo spirito che tutto pervade. Con la liberazione l'uomo cessa di vivere come corpo animato dalla mente per vivere come spirito nello spirito.
Fin qui l'orizzonte speculativo è sovrapponibile con quello di Patanjali degli Yoga Sutra. Si differenzierà nel cammino proposto per accelerare il percorso di purificazione ed elevazione.

Bg. 2.16
नासतो विद्यते भावो नाभावो विद्यते सतः ।
उभयोरपि दृष्टोऽन्तस्त्वनयोस्तत्त्वदर्शिभिः ॥ १६ ॥

nāsato vidyate bhāvo
nābhāvo vidyate sataḥ
ubhayor api dṛṣṭo ’ntas
tv anayos tattva-darśibhiḥ

16. Ciò che non esiste già, mai potrà venire ad essere, né mai ciò che veramente è, potrà cessare di esistere. Questa verità è vista così da coloro che sanno distinguere quello che è reale da ciò che non è reale.

La morte non esiste, poichè colpisce il corpo. L'anima, l'atman, ovvero lo spirito individuale, qui è chiamata sataḥ, ciò che è immortale, non può cessare di essere, anche se cambia forma. Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto è in trasformazione.

Bg. 2.17
अविनाशि तु तद्विद्धि येन सर्वमिदं ततम् ।
विनाशमव्ययस्यास्य न कश्चित्कर्तुमर्हति ॥ १७ ॥

avināśi tu tad viddhi
yena sarvam idaṁ tatam
vināśam avyayasyāsya
na kaścit kartum arhati

17. Quello da cui tutto si è diffuso è indistruttibile. Nulla può causare la distruzione di Quello che è imperituro.

Lo spirito universale, da cui tutto deriva, non degrada, ne invecchia o si dissolve. E' il brahman, qui chiamato tat, ovvero "quello", con un termine in verità molto comune nella filosofia indiana che lo distingue da idam, questo, l'universo manifesto, lo spitito individuale, l'atman.


Bg. 2.18
अन्तवन्त इमे देहा नित्यस्योक्ताः शरीरिणः ।
अनाशिनोऽप्रमेयस्य तस्माद्युध्यस्व भारत ॥ १८ ॥

antavanta ime dehā
nityasyoktāḥ śarīriṇaḥ
anāśino ’prameyasya
tasmād yudhyasva bhārata

18. Questi i corpi avranno comunque una fine, ma lo spirito che vi si incarna, il Sé, è indistruttibile, eterno e incommensurabile. Quindi combatti, oh Arjuna.

Bg. 2.19
य एनं वेत्ति हन्तारं यश्चैनं मन्यते हतम् ।
उभौ तौ न विजानीतो नायं हन्ति न हन्यते ॥ १९ ॥
ya enaṁ vetti hantāraṁ
yaś cainaṁ manyate hatam
ubhau tau na vijānīto
nāyaṁ hanti na hanyate

19. Colui che pensa che il Sé uccida o che possa essere ucciso non lo conosce, poiché esso non può uccidere né essere ucciso.


Bg. 2.20
न जायते म्रियते वा कदाचि-
न्नायं भूत्वा भविता वा न भूयः ।
अजो नित्यः शाश्वतोऽयं पुराणो
न हन्यते हन्यमाने शरीरे ॥ २० ॥

na jāyate mriyate vā kadācin
nāyaṁ bhūtvā bhavitā vā na bhūyaḥ
ajo nityaḥ śāśvato ’yaṁ purāṇo
na hanyate hanyamāne śarīre

20. Esso non è nato né morirà, non è mai iniziato e non cesserà di esistere; non è nato,  è eterno, immutabile e primordiale, non viene ucciso quando il corpo viene ucciso.

Bg. 2.21
वेदाविनाशिनं नित्यं य एनमजमव्ययम् ।
कथं स पुरुषः पार्थ कं घातयति हन्ति कम् ॥ २१ ॥

vedāvināśinaṁ nityaṁ
ya enam ajam avyayam
kathaṁ sa puruṣaḥ pārtha
kaṁ ghātayati hanti kam

21. Come potrebbe morire o cosa potrebbe mai uccidere colui che conosce il Sé come indistruttibile, eterno e inalterabile? Oh Arjuna.

Bg. 2.22
वासांसि जीर्णानि यथा विहाय
नवानि गृह्णाति नरोऽपराणि ।
तथा शरीराणि विहाय जीर्णा-
न्यन्यानि संयाति नवानि देही ॥ २२ ॥

vāsāṁsi jīrṇāni yathā vihāya
navāni gṛhṇāti naro ’parāṇi
tathā śarīrāṇi vihāya jīrṇāny
anyāni saṁyāti navāni dehī

22. Proprio come un uomo depone i vecchi vestiti per indossarne di nuovi, così anche il Sé incarnato dismette i vecchi corpi per indossarne altri nuovi.

Bg. 2.23
नैनं छिन्दन्ति शस्त्राणि नैनं दहति पावकः ।
न चैनं क्ल‍ेदयन्त्यापो न शोषयति मारुतः ॥ २३ ॥

nainaṁ chindanti śastrāṇi
nainaṁ dahati pāvakaḥ
na cainaṁ kledayanty āpo
na śoṣayati mārutaḥ

23. Le armi non lo feriscono, il fuoco non può bruciarlo, l’acqua non può bagnarlo e il vento non può seccarlo.

Bg. 2.24
अच्छेद्योऽयमदाह्योऽयमक्ल‍ेद्योऽशोष्य एव च ।
नित्यः सर्वगतः स्थाणुरचलोऽयं सनातनः ॥ २४ ॥

acchedyo ’yam adāhyo ’yam
akledyo ’śoṣya eva ca
nityaḥ sarva-gataḥ sthāṇur
acalo ’yaṁ sanātanaḥ

24. Lo spirito è eterno, immutabile, non può essere ne bruciato ne essiccato, è onnipervadente e sempre identico a Se Stesso.

Bg. 2.25
अव्यक्तोऽयमचिन्त्योऽयमविकार्योऽयमुच्यते ।
तस्मादेवं विदित्वैनं नानुशोचितुमर्हसि ॥ २५ ॥

avyakto ’yam acintyo ’yam
avikāryo ’yam ucyate
tasmād evaṁ viditvainaṁ
nānuśocitum arhasi

25. Questo Sé si dice sia oltre tutto ciò che appare, inconcepibile, ed al di là di ogni alterazione, immutabile. Quindi, se conosci questo, non dovresti compiangerlo.

La descrizione dello spirito universale e dello spirito individuale incarnato nel corpo, sono assolutamente congruenti con il sistema di credenze dei Veda e delle Upanishad, infatti qui Krishna pronuncia un improtantissimo "si dice", ovvero viene detto dalle scritture rivelate. Lo spirito non muore con il corpo ne viene alterato con la cremazione del corpo tramite il fuoco o con la decomposizione che avviene nell'inumazione. La mente ha inoltre difficoltà ad afferrarne l'essenza, è inconcepibile. Vengono subito alla mente le parole di Patanjali: il ricongiungimento tra spirito universale e spirito individuale avviene placando, escludendo, la mente.

Bg. 2.26
अथ चैनं नित्यजातं नित्यं वा मन्यसे मृतम् ।
तथापि त्वं महाबाहो नैनं शोचितुमर्हसि ॥ २६ ॥

atha cainaṁ nitya-jātaṁ
nityaṁ vā manyase mṛtam
tathāpi tvaṁ mahā-bāho
nainaṁ śocitum arhasi

26. Ma anche se tu credessi che il Sé nasce e muore infinite volte, non dovresti comunque compiangerlo, oh guerriero dal braccio possente.

Bg. 2.27
जातस्य हि ध्रुवो मृत्युर्ध्रुवं जन्म मृतस्य च ।
तस्मादपरिहार्येऽर्थे न त्वं शोचितुमर्हसि ॥ २७ ॥

jātasya hi dhruvo mṛtyur
dhruvaṁ janma mṛtasya ca
tasmād aparihārye ’rthe
na tvaṁ śocitum arhasi

27. Se è sempre inevitabile la morte per chi nasce, è altrettanto certa la nascita per chi muore, non c'è dunque ugualmente niente di cui affliggersi.

Bg. 2.28
अव्यक्तादीनि भूतानि व्यक्तमध्यानि भारत ।
अव्यक्तनिधनान्येव तत्र का परिदेवना ॥ २८ ॥

avyaktādīni bhūtāni
vyakta-madhyāni bhārata
avyakta-nidhanāny eva
tatra kā paridevanā

28. Prima gli esseri sono immanifesti, poi si manifestano e alla fine della vita tornano immanifesti: stando così le cose, perchè lamentarsi?

La nascita e la morte sono solamente manifestazioni dello spirito, della sua incarnazione. La nascita è  un passaggio nel quale l'anima si rende manifesta da uno stato precedente nel quale è semplicemente immanifesta ai nostri sensi terreni; la morte è il ritorno a quella condizione. Piangere la morte degli uomini è un'afflizione ignorante e inutile.

Bg. 2.29
आश्चर्यवत्पश्यति कश्चिदेन -
माश्चर्यवद्वदति तथैव चान्यः ।
आश्चर्यवच्च‍ैनमन्यः श‍ृणोति
श्रुत्वाप्येनं वेद न चैव कश्चित् ॥ २९ ॥

āścarya-vat paśyati kaścid enam
āścarya-vad vadati tathaiva cānyaḥ
āścarya-vac cainam anyaḥ śṛṇoti
śrutvāpy enaṁ veda na caiva kaścit

29. Qualcuno vede questo Sé come una splendida meraviglia, altri ne parlano come di una meraviglia, altri lo sentono descrivere come una meraviglia, ma anche avendone sentito parlare, quasi nessuno lo ha conosciuto veramente.

Bg. 2.30
देही नित्यमवध्योऽयं देहे सर्वस्य भारत ।
तस्मात्सर्वाणि भूतानि न त्वं शोचितुमर्हसि ॥ ३० ॥

dehī nityam avadhyo ’yaṁ
dehe sarvasya bhārata
tasmāt sarvāṇi bhūtāni
na tvaṁ śocitum arhasi

30. Colui che dimora nel corpo è eternamente inviolabile, quindi, oh Arjuna, non dovresti affliggerti per nessun essere vivente.

Krishna è comunque consapevole che solamente alcuni uomini elevati abbiano davvero avuto consapevolezza dello spirito individuale, mentre la maggior parte ne hanno soltanto sentito parlare. Lo yoga consiste proprio nel percorso di cquisizione di questa consapevolezza.
Lo spirito, il divino, è il padrone del corpo, seppure velato dalle apparenze del mondo, la vita non è che una sua ombra, l'eterno si manifesta come anima dell'uomo nel suo lunghissimo ciclo di pellegrinaggio. In questa ottica parlare di colui che uccide o viene ucciso, non ha senso.


Bg. 2.31
स्वधर्ममपि चावेक्ष्य न विकम्पितुमर्हसि ।
धर्म्याद्धि युद्धाच्छ्रेयोऽन्यत्क्षत्रियस्य न विद्यते ॥ ३१ ॥

sva-dharmam api cāvekṣya
na vikampitum arhasi
dharmyād dhi yuddhāc chreyo ’nyat
kṣatriyasya na vidyate

31. Inoltre, considerando la tua natura di guerriero e di uomo di stato, non dovresti esitare: per uno kshatriya, un nobile guerriero, nulla è più degno che il combattere una giusta guerra.

Queste sono le due principali ed elementari motivazioni che non dovrebbero fare esitare Arjuna: in primo luogo lo spirito è eterno e quindi i suoi familiari ed amici continueranno ad esistere sotto altra forma e torneranno al mondo come uomini. In secondo luogo la guerra e la strage che si sta prefigurando fanno parte dei suoi doveri sociali, dello svadharma, la legge della sua vita e del suo essere. L'evoluzione che si consegue durante la vita non è un viaggio di piacere, ma va conquistata con gesta eroiche, in mezzo a molteplici forze contrarie. Gli kshatria, la casta dei guerrieri, sono coloro che accettano il combattimento interiore ed esteriore fino al massimo conflitto della guerra, esprimendo forza, nobiltà e coraggio. Il loro dovere è l'accettazione senza riserva della battaglia.

Il discorso sembra in questa circostanza molto remoto ed appartenente a tempi e luoghi vaghi e distanti, ma non lo è. Dicevamo in apertura che la battaglia della Gita è la battaglia interiore che si appresta a compiere chiunque intraprenda un percorso spirituale. Così le esitazioni di Arjuna sono quelle di tutti noi. Banalizzando un poco, i punti fin qui evidenziati sono due. In primo luogo la vita metterà ogni essere umano di fronte al dolore della morte e della perdita, e, in un primo gradino di conoscenza, la risposta più semplice e immediata rivelata da Krishna è che la morte non esiste in quanto lo spirito è immortale, e, ad un certo punto del percorso di ricerca, questa verità dovrebbe apparire in tutta la sua sconcertante evidenza. Non ha quindi senso rammaricarsi per la morte fisica se non per il senso di perdita, ma il distacco dalle emozioni, necessario per affrontare l'esistenza da un punto di vista  spirituale, è la soluzione a queste sofferenze puramente emotive.
In secondo luogo la vita metterà ogni essere umano di fronte ai suoi doveri sociali, la via disegnata dalla Gita non è per gli asceti ritiratisi nelle grotte hymalayane o nella foresta, per chi ha rinunciato alla società per ricercare ilo spirito, ma è la via per l'umanità che progredisce come un corpo unico, attraverso il suo tessuto sociale. Si affronteranno quindi i propri doveri sociali, ad esempio, si accudirà alla propria famiglia, si svolgerà con dedizione il proprio lavoro, ma non per l'affetto e il benessere materiale che ne derivano, si farà ciò senza curarsi dei risultati, positivi o negativi che dovessero essere, si farà ciò come disciplina etica, per il senso di giustizia ultimo al quale si è chiamati. Sarà il nostro spirito ad orientarci su cosa è bene e cosa è male, ma tralasciando qualsiasi implicazione emozionale o materiale, mirando esclusivamente al bene ultimo.


Bg. 2.32
यदृच्छया चोपपन्नं स्वर्गद्वारमपावृतम् ।
सुखिनः क्षत्रियाः पार्थ लभन्ते युद्धमीदृशम् ॥ ३२ ॥

yadṛcchayā copapannaṁ
svarga-dvāram apāvṛtam
sukhinaḥ kṣatriyāḥ pārtha
labhante yuddham īdṛśam

32. I guerrieri, gli kshatriya, sono felici di essere chiamati a combattere una tale battaglia, poiché, di per se stessa, essa è una porta aperta verso il cielo.

Krishna porta ora il discorso su di un altro piano, si interroga su quale sia lo scopo di vivere e la ragione d'essere. Lo stato di felicità di un guerriero non è certo godere del piacere materiale personale, della tranquilla compagnia di amici e parenti. Combattere per il diritto, per la giustizia è lo scopo della sua vita. Compiere questo scopo è la sua ragione d'essere e deve quindi essere felice di metterlo in pratica.


Bg. 2.33
अथ चेत्त्वमिमं धर्म्यं सङ्ग्रामं न करिष्यसि ।
ततः स्वधर्मं कीर्तिं च हित्वा पापमवाप्स्यसि ॥ ३३ ॥

atha cet tvam imaṁ dharmyaṁ
saṅgrāmaṁ na kariṣyasi
tataḥ sva-dharmaṁ kīrtiṁ ca
hitvā pāpam avāpsyasi

33. Ma se tu, abbandonando il tuo dovere e il tuo onore, non combatterai questa giusta guerra, allora incorrerai nella colpa.


Bg. 2.34
अकीर्तिं चापि भूतानि कथयिष्यन्ति तेऽव्ययाम् ।
सम्भावितस्य चाकीर्तिर्मरणादतिरिच्यते ॥ ३४ ॥
akīrtiṁ cāpi bhūtāni
kathayiṣyanti te ’vyayām
sambhāvitasya cākīrtir
maraṇād atiricyate

34. La gente parlerà per sempre della tua infamia, e per una persona d’onore questo è peggio della morte.

Bg. 2.35
भयाद्रणादुपरतं मंस्यन्ते त्वां महारथाः ।
येषां च त्वं बहुमतो भूत्वा यास्यसि लाघवम् ॥ ३५ ॥
bhayād raṇād uparataṁ
maṁsyante tvāṁ mahā-rathāḥ
yeṣāṁ ca tvaṁ bahu-mato
bhūtvā yāsyasi lāghavam

35. I grandi guerrieri penseranno che tu abbia rinunciato alla lotta per paura, e tu sarai disprezzato da coloro che ti attribuivano onore.

Bg. 2.36
अवाच्यवादांश्च बहून्वदिष्यन्ति तवाहिताः ।
निन्दन्तस्तव सामर्थ्य ततो दुःखतरं नु किम् ॥ ३६ ॥
avācya-vādāṁś ca bahūn
vadiṣyanti tavāhitāḥ
nindantas tava sāmarthyaṁ
tato duḥkha-taraṁ nu kim

36. I tuoi nemici pronunceranno parole calunniose contro di te, denigrando il tuo coraggio: cosa mai potrebbe esserci di peggiore per te?

Si sta svolgendo una lotta tra il bene e il male, fra il giusto e l'ingiusto, non è possibile esitare difronte alla violenza che si deve affrontare. Avvilire gli ideali sociali, offuscare il proprio onore, essere deboli, significa abbassare il livello morale dell'umanità, tradire se stessi e tradire ciò che è giusto. E' questo il riferimento all'opinione altrui. Come dicevamo, il percorso di elevazione spirituale viene compiuto all'interno della società, l'individuo è componente di tutta l'umanità, la realizzazione di uno è l'avanzamento di tutti, per questo il giusto deve trionfare con tutte le forze.


Bg. 2.37
हतो वा प्राप्स्यसि स्वर्ग जित्वा वा भोक्ष्यसे महीम् ।
तस्मादुत्तिष्ठ कौन्तेय युद्धाय कृतनिश्चयः ॥ ३७ ॥
hato vā prāpsyasi svargaṁ
jitvā vā bhokṣyase mahīm
tasmād uttiṣṭha kaunteya
yuddhāya kṛta-niścayaḥ

37. Se verrai ucciso guadagnerai il cielo, e se sarai vittorioso godrai di un vasto regno; dunque alzati, oh Krishna figlio di Kunti, e combatti con risolutezza.

Bg. 2.38
सुखदुःखे समे कृत्वा लाभालाभौ जयाजयौ ।
ततो युद्धाय युज्यस्व नैवं पापमवाप्स्यसि ॥ ३८ ॥
sukha-duḥkhe same kṛtvā
lābhālābhau jayājayau
tato yuddhāya yujyasva

naivaṁ pāpam avāpsyasi

38. Considerando eguali il piacere e il dolore, il guadagno e la perdita, la vittoria e la sconfitta, impegnati in questo modo nella battaglia, e non sarai esposto a nessun errore.

Il verso 37 sembra svilire l'eroico appello di Krishna, la spiritualità stoica promossa, e quindi ci appare in prima analisi fuori contesto. Ma come? prima si esorta a distaccarsi dai risultati materiali delle azioni, di considerare alla stessa stregua la buona fortuna e la sconfitta ed ora si afferma che tanto, comunque vada, sarà un successo e conveniente sia in terra che in cielo? Sri Aurobindo, nel suo magnifico commento alla Gita, attribuisce questo salto ad un'etica tipicamente indiana. Tale etica prevede lo sviluppo della vita morale e spirituale necessariamente per ideali progressivi. Quindi, con il salto compiuto,  Krishna afferma che, d'accordo, quanto esposto in precedenza sono gli ideali più alti, ma se ancora Arjuna non fosse convinto, anche facendo leva ad ideali più bassi, ovvero la vittoria ed il successo, anche in questo caso si renderebbe necessaria l'entrata in battaglia.
Ed ecco che infatti nel verso successivo si torna su di un piano più elevato, concorde con quanto sin qui esposto, per non commettere nessun errore, Arjuna deve combattere in modo distaccato dai risultati, solamente per la giustizia della causa, senza calcoli di convenienza.

Dicevamo che il secondo libro della Bhagavad Gita si divide idealmente in due parti, così si conclude la prima. Sono stati esposti tutti gli argomenti logici, ovvero dettati dalla logica filosofica induista, nota con il nome di Sankhya, a contrastare le esitazioni di Arjuna: l'afflizione, l'orrore del massacro, il peccato e i risultati nefasti delle azioni. Questi argomenti seguivano i più alti ideali morali. Nella seconda metà vedremo le argomentazioni dettate dallo yoga dell'azione di Krishna, il famoso yoga della Bhagavad Gita.



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