Patanjali Yoga Sutra, Libro Terzo: i Doni [new]

marzo 14, 2018



di Marco Sebastiani


Il terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali tratta dei risultati che si conseguono con la pratica dello yoga, intesi anche come obiettivi finali e livelli più alti della pratica stessa. Personalmente è un libro che ritengo di grande ispirazione. Il terzo libro tira le fila di quanto detto finora e probabilmente per questo motivo evidenzia in modo particolare la coerenza del discorso e le interpretazioni applicate sino a questo punto. L'idea di pubblicare una nuova traduzione degli Yoga Sutra è nata proprio dalla lettura di molte versioni del terzo libro che interpretavano questi passi come il conseguimento di "superpoteri", come l'invisibilità o la telepatia, raggiunti mediante la meditazione su questo o quel punto focale. Vedremo che approcci alternativi non sono solo possibili, ma sono forse più coerenti con quanto enunciato sin qui dall'autore.

Una completa ed intensa pratica di tutti e otto i passi fondamentali descritti nei capitoli precedenti permette di raggiungere alcuni traguardi. Intendiamo lo yoga oggetto della trattazione di Patanjali come un'attività prettamente esperenziale, legata alla pratica e non un'attività filosofica, speculativa, teorica o religiosa.  In particolare, crediamo che gli obiettivi indicati dall'autore siano strettamente legati alla pratica e non di natura sovrannaturale. Gli obiettivi della pratica non sono superpoteri, ma doti fisiche, mentali e soprattutto spirituali. In quest'ottica l'opera ci appare una grandissima fonte di ispirazione, molto attuale, un dono  per tutti gli yogin.



Gli ultimi sutra del III libro di Patanjali cercano inoltre una risposta alle domande ancestrali dell'uomo: chi siamo, qual'è il senso della vita, cosa è la realtà che ci circonda. La pratica dello yoga, secondo l'autore, fa chiarezza su questi aspetti, una volta arrivata alla sua massima vetta. Questi sono i doni finali che si possono conseguire, prima della grande liberazione finale, argomento del quarto libro, quando non sarà più necessaria nemmeno alcuna pratica.

Ma veniamo ora al testo. Patnjali, alla fine del secondo libro, stava enunciando gli ultimi due passi degli otto che costituiscono il suo Ashtanga Yoga  (Ashta=otto, anga= passi),  ovvero la concentrazione e la meditazione. Il discorso riprende da questo punto senza soluzione di continuità, introducendo poi anche l'ultimo passo, il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito assoluto, questi ultimi tre gradini essendo gli strumenti più elevati di tutta la pratica.


Patanjali Yoga Sutra, Libro Terzo

Vibhuti Pada
Capitolo sui doni



YSIII:1 desha bandha cittasya dharana
Dharana, la concentrazione, è l'attenzione cosciente sulla pratica.

La concentrazione durante la pratica è un passo essenziale e consiste, banalmente, nell'essere attenti ed immersi nel momento presente. Questo è un meccanismo cosciente in cui, semplificando, possiamo dire che i pensieri sono rivolti interamente a quanto si sta facendo. Credo che il concetto sia molto chiaro a chi pratica asana e pranayama. La pratica deve essere intensa proprio perché in questo modo si lascia meno spazio alla mente di divagare, una pratica intensa più facilmente coinvolgerà tutti i pensieri impedendo distrazioni. La concentrazione è una parte imprescindibile dell'intensità.

La traduzione di questo sutra è fondamentale per l'interpretazione dei successivi. La versione più comune è:  "Dharana, la concentrazione, consiste nel fissare la mente sull'oggetto su cui si medita."  Questa traduzione, seppure in linea con certi tipi di meditazione buddista, porterà poi a confondere l'attenzione a ciò che si sta facendo con l'attenzione su qualcosa. A supporto della nostra interpretazione, che non nascondiamo essere minoritaria, possiamo dire che essa è letterale in quanto desha, oltre ad oggetto, può significare anche luogo della pratica ovvero la pratica stessa. Torneremo su questo concetto.


YSIII:2. tatra pratyaya ikatanata dhyanam

Il passo successivo è dhyana, la meditazione, l'ininterrotto flusso della percezione profonda.


Dopo la concentrazione sulla pratica e grazie ad essa, il praticante potrà sperimentare il passo successivo, la meditazione, che consiste in uno stato di assenza dei pensieri che ci permette di vedere il nostro spirito, avendo escluso la mente. Come dicevamo, se la mente può essere a sua volta osservata, cesserà l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri e comparirà la consapevolezza che ciò che sta osservando la mente è qualcosa di più elevato ovvero il nostro spirito.  Questa è la percezione profonda, pratiyaya, e ricordiamo a questo proposito il sutra I,25: “Successivamente, grazie alla pratica continua, resta solamente la percezione profonda dello spirito universale”. La meditazione è una prolungata assenza di oscillazioni della mente, percezione profonda che ci permette di vedere il nostro spirito individuale. Non vogliamo qui fare l'esegesi delle traduzioni del testo, ma analogamente al sutra precedente, una corrente predominante traduce: "Dhyana è l'ininterrotta fissità della mente sull'oggetto".


YSIII:3. Tadeva artha matra nirbhasam svarupa sunyam iva samadhih

Poi si raggiunge il samadhi, l'unione dello spirito individuale con lo spirito assoluto, la beatitudine derivante dalla contemplazione in cui sparisce il soggetto che osserva.


Successivamente, grazie alla meditazione, ma anche grazie a tutti i sette precedenti passi, si arriva allo stadio finale della pratica, il più elevato. La percezione profonda ci ha fatto scoprire lo spirito individuale, ora questo stato ci permette di contemplare lo spirito assoluto ovvero di ricongiungere lo spirito individuale con lo spirito assoluto che tutto pervade. Tale illuminazione, ovvero l'osservazione spirituale della realtà senza i veli dell'ignoranza, porta a uno stato di beatitudine. Questo potrebbe sembrare un concetto astratto, ma non lo è, in quanto Patanjali si riferisce esattamente al momento in cui in particolari momenti della vita, dopo una pratica sistematica e intensa, composta in modo ottimale secondo le proprie esigenze tra asana, respirazione, concentrazione  e tutto quanto detto in precedenza, arrivati alla meditazione, si sperimenta uno stato di beatitudine assoluto. Il soggetto che osserva scompare perché si fonde con lo spirito che viene osservato. E' un concetto molto bello ed elevato. Come sanno tutte le persone che praticano con una certa continuità, il percorso che conduce a questo punto, nonché le sensazioni che si provano e la durata di questi processi sono vari quanto sono vari gli esseri umani, ma non sono concetti astratti. Chi ha interpretato questi ultimi tre passaggi come l’impegno della mente su qualcosa, versione che a noi sembra in contrasto con i primi due libri, traduce questo sutra come: “il Samadhi si ha allorché, la mente si unisce all'oggetto osservato”. Lungi dal polemizzare con traduttori ben più titolati di chi scrive, mantenendo però questa linea, il tutto diviene un poco meccanico e il primo libro sul samadhi sembra fuori contesto.


YSIII:4. trayam ekatra samyamaḥ

Questi tre passi sulla via dello yoga, dharana, dhyana e samadhi, generano la perfetta integrazione, detta samyama.


Concentrazione, meditazione e unione con lo spirito assoluto, ultimi tre passi della pratica, sono tra loro sinergici ovvero la loro somma produce un risultato accresciuto rispetto all'unione dei singoli elementi che la compongono. In realtà questo è vero per tutti gli otto passaggi sin qui trattati. Con samyama, l'integrazione, Patanjali non sta introducendo un nono passo: quello che vuole qui affermare è che per sperimentare il vero samadhi, la vera contemplazione dello spirito assoluto, è necessario padroneggiare perfettamente questi tre passaggi, inoltre si ribadisce che i passi sono integrati e che in particolare gli ultimi tre sono proprio inseparabili l'uno dall'altro; per arrivare all'ultimo dobbiamo continuare ad essere stabili anche nei due precedenti, concentrazione e meditazione, altrimenti ciò è impossibile. In realtà il testo di Patanjali è molto sintetico e letteralmente dice: “integrazione, i tre come uno”, che abbiamo parafrasato, ma il cui concetto sembra chiaro.


YSIII:5. taj jayat prajoalokaj

Padroneggiando l'integrazione di questi tre aspetti, samyama, emerge la luce della somma consapevolezza.


YSIII:6. tasya bhumisu viniyogah

L'integrazione, Samyama, si sviluppa per gradi.


7. trayam antar angam purvebhyah

Questi tre passi sulla via dello yoga, dharana, dhyana e samadhi, hanno conseguenze interiori più profonde se paragonati ai cinque che li precedono.


8. tad api bahir aogam nirbijasya

Tuttavia sono esterni, se paragonati al samadhì quando sopraggiunge senza l'intervento della volontà.


Arrivati quindi a percorrere tutti e gli ottto passi della via dello yoga e in particolare grazie alla perfetta integrazione degli ultimi tre, giunti al samadhi, si giunge alla massima consapevolezza spirituale, obiettivo finale dello yoga. Questo stato finale ha comunque a sua volta dei gradini e dei livelli. Il samadhi può essere intuito, sperimentato per brevi momenti oppure in modo stabile e sistematico. Nulla si compie d’improvviso, ma tutto è invece risultato di un processo lungo e costante.

Dicevamo che non convicne la divisione tra aspetti fisici ovvero i primi cinque passi e aspetti spirituali, ovvero gli ultimi tre gradini, perché induce una separazione che non è propria dell'autore. Patanjali afferma tuttavia che dharana, dhyana e samadhi sono aspetti della pratica che portano lo yogin a una maggiore introspezione rispetto ai passaggi precedenti, questo è un dato di fatto. Le norme di comportamento, ma soprattutto asana, respirazione e introspezione, comportano l'uso dei sensi e del pensiero che invece successivamente tenderemo gradualmente a superare. Preso contatto cosciente con “l'nteriorità” e i flussi di energia, il praticante può dedicarsi all’uso dei mezzi soggettivi e intimi. Come spesso accade ritengo che questi passaggi appaiano più chiari a chi pratica yoga rispetto a chi si occupa dei sutra da un punto di vista puramente filosofico.

Patanjali ritorna poi a ribadire quanto già accennato alla fine del primo libro, ovvero che esistono due tipi di ricongiungimento con lo spirito universale, o samadhi, uno meno elevato che si raggiunge grazie all'intervento della volontà, perché perseguito e ricercato, ed uno più elevato, che si consegue senza l'intervento della volontà, involontariamente. Questo ultimo stadio rappresenta la massima introspezione possibile nella quali si riesce ad osservare la propria parte divina o meglio ci si fonde con la divinità presente in se stessi. Soggetto contemplante ovvero me stesso e oggetto contemplato, ovvero ciò che sento, ciò che emerge dall'esclusione della mente, lo spirito, diventano una cosa sola.


YSIII:9. Vyutthana nirodha samskārayoh abhibhava pradurbhavau nirodhaksana cittānvayo nirodha parināmah

Nel percorso verso l'immobilità è importante la transizione tra concentrazione e meditazione, quando da uno stato si passa al successivo.


YSIII:10. tasya prasanta-vahita samskarat

Quando questa transizione diviene un flusso stabile, la percezione dello spirito diviene stabile.


YSIII:11. sarvarthataikagratayh ksayodayau cittasya samadhi parinamah

La transizione tra concentrazione e meditazione sorge quando cessa la concentrazione su singoli aspetti e non interviene nessuna distrazione.


YSIII:12. tatah punah satoditau tulya pratyayau cittasya ikagrata parinamah

Poi ancora, la transizione da concentrazione a meditazione diviene unidirezionale quando diventa stabile la sospensione della concentrazione su aspetti mutevoli.


I sutra tra 9 e 12 sono tra i più controversi di tutta l'opera, non annoieremo il lettore con una panoramica delle interpretazioni.  Operando qualche semplificazione diremo che l'oggetto di cui si sta parlando è l'evoluzione delle fasi di controllo della mente, della consapevolezza e dello spirito. Particolarmente difficile è la transizione dalla concentrazione alla meditazione ovvero l'acquietazione definitiva delle oscillazioni della mente, definizione dello yoga stesso secondo quanto affermato nell'apertura dell'opera: yoga citta vritti nirodha, lo yoga consiste nella cessazione delle oscillazioni della mente. Il passaggio tra concentrazione e meditazione è difficile e cruciale nella pratica. Chi pratica lo sa bene ed è il motivo per il quale è generalmente necessario prepare questo passaggio con intensi asana e pranayama. Patanjali suggerisce che riusciremo a sperimentarlo sistematicamente e a portare avanti la meditazione per un periodo sufficientemente lungo e costante, senza essere richiamati indietro dalla concentrazione su alcun aspetto o elemento, grazie ancora una volta all'esercizio di una pratica costante. Questo esercizio eviterà che si interrompa la meditazione per tornare nuovamente ad uno stato di concentrazione e quindi di attenzione su qualcosa.

Vogliamo richiamare l'attenzione sul passaggio tra consapevolezza e integrazione definitiva e stabile tra corpo, mente e spirito. E' necessario secondo l'autore prendere consapevolezza di questi tre aspetti, ma nello stato meditativo si trascende questa separazione che capiremo solamente ora essere fittizia, seppure funzionale.



YSIII:13. etena bhutendriyesu dharma-laksana-avastha parinama vyakhyatah

Grazie a questa pratica si comprendono le proprietà di tutte le cose: le caratteristiche, la forma materiale e le evoluzioni.


YSIII:14. san odita avyapadesya dharmanupati dharmi

Vengono comprese tutte le cose, siano esse latenti, attive o non manifeste.


YSIII:15.  kramanyatvam parinamanyateve hetuh

Le differenze nel livello individuale raggiunto produrranno una varietà di esperienze mentali e spirituali.


Si entra quindi nel vivo della trattazione dei risultati che la via dello yoga permette di ottenere, come indicato dal titolo stesso del presente capitolo. Il raggiungimento dello stato finale della pratica, permette di conoscere la vera essenza del mondo e di vedere sotto una nuova luce la realtà, di approcciarsi in modo differente a ciò che ci circonda. Oltre al mondo materiale, si comprendono anche gli aspetti spirituali e le leggi che li regolano.

Le esperienze che deriveranno dall'osservazione dipenderanno sicuramente dal livello raggiunto nella pratica, perché, anche a questo sommo gradino, esistono livelli più o meno alti. Aggiungeremo che non ci saranno due persone che percepiranno allo stesso modo le medesime esperienze, perché queste sono strettamente personali e individuali.


YSIII:16. parinamatraya-samyamat-atitanagata jnanam

Praticando i tre passi dell'integrazione, samyama, si perviene alla chiara analisi del passato e del futuro.


La pratica integrata della concentrazione, della meditazione e del ricongiungimento con lo spirito assoluto porta a una chiarezza mentale tale che il passato diviene oggettivo, non più mediato dalla nostra interpretazione. Allo stesso modo tale chiarezza permette di vedere nel futuro con oggettività, senza l'intervento dei nostri desideri, delle nostre speranze. L'uomo continuamente illuso dalla speranza, strumento per rendere sopportabile la vita di chi è schiavo dell'ignoranza, è ora liberato. Sembrerebbe a chi scrive fuori luogo spingere il discorso nel senso della chiaroveggenza del passato inteso come storia e fatti ai quali non si è assistito oppure del futuro inteso come predizione dello stesso. Questa linea interpretativa è però abbastanza diffusa e, soprattutto nel secolo passato, abbondavano yogin che dichiaravano di avere “superpoteri” o che raccontavano i miracoli compiuti dai loro maestri. Ne è un chiaro esempio l'opera “Autobiografia di uno yogi” di Paramahansa Yogananda, grande classico della letteratura e racconto senza soluzione di continuità di miracoli di ogni tipo. Non si vuole qui ovviamente criticare quest'opera, di grande interesse, ma solamente affermare che, contrariamente a una ben attestata linea interpretativa, non riteniamo che Patanjali si riferisca a poteri miracolosi, ma si riferisca a doti mentali e spirituali.


YSIII:17. sabdartha pratyayamam itaretaradhyasat samkarah tat pravibhaga samyamat sarvabhuta ruta jnanam

La pratica porta alla comprensione delle parole di tutti gli uomini, del loro significato e della loro essenza spirituale.


La chiarezza mentale porta il praticante ad afferrare le parole nei loro tre livelli di significato ovvero il suono prodotto, ciò che vogliono rappresentare e ciò che vogliono intendere. Si consegue quindi la capacità di capire ciò che le persone sottendono alle proprie parole oppure ciò che vogliono celare o dissimulare.

E' possibile interpretare questo sutra anche in un altro senso, più religioso, nel senso che diventa possibile comprendere il Verbo, il suono primigenio ed il suo significato. Non convince però questa interpretazione perché il termine usato per parola è sabda e non ad esempio om, ananat o simili. Si riporta questa interpretazione perché per alcuni autori è fondamentale per capire addirittura tutta l'opera di Patanjali, o meglio forse, del significato che a questa loro vogliono attribuire.


YSIII:18. samskara-saksatkaranat purva-jati-jnanam

Osservando le impressioni del passato si ottiene la conoscenza sulle nascite precedenti.


Patanjali, con buona pace di chi definisce il suo approccio come scientifico o la sua opera come laica, è chiaramente immerso nel pensiero induista del suo tempo e non potrebbe essere altrimenti. Ogni autore è sempre figlio del suo tempo e la sua opera va inquadrata nel suo periodo storico. Per tutti gli induisti, da sempre, un chiaro sintomo di elevazione spirituale è avere cognizione delle proprie vite precedenti. Secondo questo pensiero, l'uomo comune non ha percezione della trasmigrazione e dell'evoluzione che la propria anima ha compiuto in altri esseri, mentre l'uomo illuminato ricorda qualcosa delle vite precedenti. Sono molti i casi in cui si porta a dimostrazione della santità di una persona, il suo ricordare aneddoti o oggetti delle vite precedenti. Andando indietro nel tempo i ricordi sono sempre più flebili e l'ultima vita trascorsa prima dell'ultima reincarnazione è quella di cui si può conoscere meglio i dettagli.

Un bramino indiano considerato molto saggio mi disse una volta di diffidare sempre di coloro i quali pretendono di dare indicazioni agli altri sulle loro vite precedenti. Egli era considerato un Santo e per sua stessa ammissione era in grado di ricordare poco delle sue vite precedenti e ancora meno del passato e del futuro delle altre persone, se non in rarissimi casi. La conoscenza del passato era inoltre per lui equivalente a quella del futuro considerando ininterrotto il flusso temporale al di fuori del velo dell'ignoranza, conoscere le vite precedenti era secondo lui difficile come predirre il futuro. Ma questo discorso ci spingerebbe troppo lontano.


YSIII:19. pratyayasya para citta jnanam

Grazie alla pratica è possibile capire le intenzioni altrui


YSIII:20. pratyayasya para itta jnanam

La pratica di cui stiamo parlando non porta a leggere i pensieri nella mente altrui, in quanto quello non è un oggetto che può essere percepito direttamente.


Fortunatamente in questo caso è l'autore stesso che previene possibili interpretazioni legate all’ottenimento di presunti “superpoteri”. Patanjali afferma che la chiarezza mentale derivante dalla pratica permette di conoscere i pensieri altrui, ovvero vedendo e parlando con una persona si è in grado di capire le sue intenzioni, da mille indizi e sfumature.  L'apertura mentale e la compassione verso tutte le persone, garantiscono al praticante un livello di empatia con il prossimo tale da capire i suoi reali pensieri. L'autore sembra però rendersi conto che questa affermazione potrebbe essere fraintesa ed interpretata in modo fuorviante, nel senso di leggere la mente altrui, di stabilire un contatto telepatico, quindi specifica che ciò che è insito nella sola mente non può essere compreso in modo diretto.


YSIII:21. kaya rupa samyamat tad grahya sakti stambhe caksuh prakasa asamprayoge ‘ntardhanam

Praticando con attenzione alla forma che il corpo assume ed alla forza, scompaiono quindi i difetti che l'occhio vede alla luce.


YSIII:22. etena sabdadya antardhanam uktam

Allo stesso modo scompaiono anche le espressioni degli altri difetti.


Secondo la maggior parte dei commentatori il sutra 21 viene tradotto: “Concentrandosi sulla luce e sul corpo è possibile diventare invisibili all'occhio umano”. Sembra impossibile, ma la nostra traduzione è quantomai fedele al testo originario. Facendo un'eccezione, riportiamo il significato letterale parola per parola:


kāya = corpo,

rūpa = forma,

saṁyamāt = la pratica,

tat = quindi,

grāhya =  percepibili,

śakti =  forza,

arhtaḥ = difetti,

cakṣuḥ = occhio,

prakāśa = luce,

asaṁprayoge = sotto,

antardhānam = scomparire.


Non vogliamo in alcun modo proporre la nostra interpretazione come quella vera e giusta, ma semplicemente esporre quello che noi abbiamo capito. Saremmo ben contenti di ricevere commenti in merito. Secondo noi si sta parlando di posizioni e pratica fisica incentrata sulla forza fisica e mentale. Secondo chi scrive si sta ponendo l'attenzione sulle asana, sui benefici che esse portano al corpo fisico, soggetto a sofferenze non meno di quello spirituale. Grazie ad una pratica incentrata sul corpo quindi i difetti fisici, visibili all'occhio (ovvero non quelli dell'animo), dice Patanjali, scompaiono. Allo stesso modo scompaiono anche i problemi legati agli altri sensi, come ad esempio i dolori o i sintomi dei mali calssici identificati dell'ayurveda, bocca amara, vista annebbiata, ronzii ecc.


YSIII:23.  sopakramam nirupakramam ca karma tatsamyamāt-aparāntajñānam aristebhyo va

La pratica permette di avere chiarezza del karma, delle conseguenze delle nostre azioni, presenti e future,  e diviene possibile, percependo anche altri segni, predire il momento della liberazione dello spirito.


Ogni azione in questa vita è effetto di una causa avviata in un’incarnazione antecedente; ogni azione nella vita origina effetti, a meno che sia compiuta in modo tale che l’effetto sia immediato e si esaurisca entro i limiti della vita stessa oppure non generi karma perché compiuta per motivi altruistici e con distacco. Gli uomini illuminati grazie a quanto precedentemente detto ed alla pratica che li purifica, si incarnano con pochi effetti del karma dalle vite precedenti e, anche grazie alla continua purificazione della pratica, potrebbero riuscire a liberarsi dagli effetti del karma e quindi dal ciclo delle rinascite ovvero potrebbero raggiungere la perfezione e la conseguente liberazione permanente dello spirito. La pratica, oltre a purificare il karma precedente, dona coscienza di questa possibile liberazione. Inoltre, secondo una diffusa credenza induista, i santi uomini possono predire il momento della propria morte fisica. In molti casi è anche vero che queste persone quando sentono di essere arrivate alla fine del proprio percorso, intraprendono l'ultimo viaggio lasciandosi di fatto morire. Il riferimento potrebbe anche essere questo, predire il momento della liberazione è interpretabile come predire il momento in cui si sfuggirà al ciclo delle rinascite oppure la morte del corpo fisico.


YSIII:24. maitry adisu balani

Grazie alla pratica lo yogin sviluppa grande benevolenza, e diviene empatico con gli altri.


La chiarezza mentale della pratica, generata anche dal rispetto delle norme etiche e morali dei primi due passi dell'ashtanga yoga di Patanjali, tra le quali era appunto presente la benevolenza verso i deboli, porta ad identificarsi con gli altri e ad avere benevolenza verso i più deboli, ovvero tutti gli uomini comuni. In realtà nella traduzione abbiamo arricchito leggermente il discorso, il verso recita semplicemente: i poteri (donano) amicizia verso gli altri.


YSIII:25. balesu hasti baladini

Incentrando la pratica sulla forza, si diventa forti come un elefante.


Come detto, la decisione di pubblicare una nuova edizione degli Yoga Sutra di Patanjali era stata motivata anche da una traduzione del sutra 24 del III libro, letta su Instagram che recitava così: Concentrandosi sulla forza dell'elefante o di altri animali la si può assimilare. Il commento proseguiva: è il solito principio emulativo, si assorbono le qualità dell'oggetto della meditazione. Immaginavamo yogin del passato e del presente intenti a meditare visualizzando un elefante, con lo scopo di acquisirne la forza. Ci strappava un sorriso. A nessun titolo si vuole però indicare come sbagliata questa traduzione che, tralaltro è riportata da moltissimi autori più illustri di chi scrive. Diremo che non è in linea con quanto noi abbiamo capito fino a questo punto dell'opera di Patanjali e che quindi è molto lontana dalla nostra interpretazione.

La pratica dello yoga richiede grande forza di volontà e a sua volta la alimenta, ogni yogin ne è consapevole, nonché una certa forza fisica. Per gli indiani l'elefante è simbolo della saggezza e della forza fisica, qualità rappresentate al massimo grado dal Dio dalla testa di elefante: Ganesh. Molti yogin indiani sono devoti di Ganesh, figlio di Shiva, proprio perché egli rappresenta le due doti più ambite dai praticanti: forza e saggezza, grazie a queste doti Ganesh è il Dio che rimuove gli ostacoli.



YSIII:26. pravrtty aloka nyasat suksma vyavahita viprakrsta jnanam

Incentrando la pratica sulla luce interiore si consegue la conoscenza di ciò che è sottile, celato e remoto.


I sutra successivi sono dedicati agli effetti dello yoga sulle energie interiori e sui punti nodali di tali energie, i chakra. Volgendo all'interno lo sguardo durante la pratica miglioreremo la capacità di ascoltarci e di percepire le energie sottili che permeano il corpo attraverso i canali, o nadi, e i centri energetici dei chakra. Il prana, l'energia che tutto pervade, entra nel corpo grazie alla respirazione e viene poi portato dal basso ventre verso la sommità del capo, da alcuni canali detti nadi. Tutte le scuole di yoga tradizionali si basano sul fatto che la pratica dello yoga favorisce questa circolazione del prana o energia sottile. La coscienza della circolazione di questa energia è uno degli obiettivi dello yoga . Su questi concetti, definiti con un termine molto appropriato “anatomia sottile”, si basano da oltre tremila anni la medicina ayurvedica indiana, ma anche, seppure con le dovute differenze, la medicina tradizionale cinese ed orientale in senso lato.


YSIII:27. bhuva jnanam surye samyamat

Incentrando la pratica sull'energia maschile, surya, si migliora la comprensione dell'universo fisico.


YSIII:28. candre taravyuha jnanam

Incentrando la pratica sull'energia femminile, chandra, si migliora la comprensione del passare del tempo.


YSIII:29.dhruve tad gati jnanam

Incentrando la pratica sul passare del tempo, si comprende meglio il suo funzionamento.


Le due nadi principali ai lati di shusumna, il canale energetico centrale, sono ritenute, dallo schema ayurvedico classico, portatrici di due energie differenti ed in qualche maniera opposte. Alla destra si trova pingala, che trasporta un'energia di natura solare, maschile, attiva, calda, positiva. Incentrare la pratica sull'energia maschile significa solitamente fare una pratica più attiva, ma anche attuare altri aspetti più complessi che non approfondiremo in questa sede. Secondo l'autore questa pratica favorisce la comprensione del corpo, del mondo fisico e delle forze che lo pervadono. Il Sole e la Luna sono in questo caso chiaramente le due tipologie di energia sottile interiore, che fanno riferimento anche alla dualità universale indiana incentrata su Shiva (principio maschile) e Shakti (principio femminile).

La nadi di sinistra, Ida, trasporta invece un'energia di natura femminile, lunare, passiva, tiepida, caratteristica di una pratica che definiremo meno attiva e più introspettiva. Questa pratica dona secondo Patanjali la conoscenza del passare del tempo, in prima analisi durante la pratica stessa. Questo sutra viene spesso tradotto: “concentrandosi sulla luna si ottiene la conoscenza delle stelle”. Secondo chi scrive è chiaramente una metafora, e per conoscenza delle stelle si intende lo scorrere del tempo, misurato all'epoca da calendari che si basavano sui movimenti celesti. Rimanendo alla base di questo concetto, tutti noi abbiamo sperimentato quanto sia difficile avere la percezione del tempo durante la meditazione e questo sarebbe davvero un grandissimo risultato. Anche altri commentatori dissentono con le traduzioni in cui i riferimenti astronomici sono intesi in senso letterale. Tutti gli yogin conoscono la particolarissima percezione del tempo che si ha durante la pratica. Questo è vero soprattutto all'inizio, con l'esperienza si acquista migliore consapevolezza dello scorrere del tempo e dei riferimenti da adottare per avere una misura del movimento assoluto in avanti che il tempo compie per noi esseri terreni. Letteralmente il sutra 29 dice: “Stella Polare movimenti conoscenza”, ma in coerenza con quanto detto per il sutra precedente, si ritiene la Stella Polare il punto di riferimento per il movimento delle stelle, l'astronomia antica indiana la riteneva immobile, e quindi punto nodale per la misurazione dello scorrere del tempo . L'assenza di movimento significa anche il non essere soggetti al passare del tempo, incarnare l'eternità, un gradino interpretativo superiore potrebbe spingerci in questa direzione ovvero come la pratica possa distaccarci dal tempo ordinario e metterci in contatto con il tempo assoluto, l'eternità, con le ere che si succedono.


YSIII:30. nabhi cakra kayavyuha jnanam

Incentrando la pratica sull'energia dell'addome, si consegue la conoscenza del proprio corpo.


Tutta l'energia del prana si accumula, secondo la concezione indiana classica, nella zona tra il basso addome e la base della colonna vertebrale, qui risiede kundalini, il serpente personificazione di questa forza, che la pratica ha il compito di risvegliare. Il primo passo del suo risveglio è la presa di consapevolezza del fluire del prana all'interno di tutto il corpo. Il nabhi chakra citato nel sutra e tradotto come energia dell’addome, è in genere considerato sinonimo e corrispondente a Manipura chackra, il terzo chakra situato tra ombelico e stomaco. Il basso addome è inoltre il baricentro fisico del corpo, fulcro di tutti i movimenti, il suo controllo dona sicuramente equilibrio e stabilità. Avendo il preciso controllo del proprio addome si acquisisce la consapevolezza e il controllo del respiro e di tutto il corpo, nessuno yogin potrà dissentire con questa affermazione.


YSIII:31. kantha kupe ksutpipasa nivrttih

Incentrando la pratica sulla gola, si ottiene l'arresto delle sensazioni di fame e di sete.


La gola è il centro del chakra visuddhi, anche la stimolazione di questo chakra ed i suoi effetti sono ben documentati in varie tipologie di pratiche: pranayama, asana, mudra, ecc. Banalmente, tutti i praticanti avranno sperimentato il drastico cambiamento dell'appetito una volta intrapresa una pratica intensa e sistematica; l'astensione dal bere durante la pratica viene inoltre raccomandata da numerose opere tradizionali per l'influenza negativa che l'acqua avrebbe su alcune tipologie di energie corporee. Il senso si ritene però più complessivo: i chakra controllano le risposte della mente e incentrando la pratica su taluni centri è possibile modificare le risposte del nostro corpo, anche agli stimoli più profondi e vitali, come la fame e la sete. Il potere qui riportato è proprio il controllo della mente e del corpo attraverso una pratica mirata verso alcuni centri energetici. La pratica dello yoga ha un effetto che può essere indirizzato verso taluni centri energetici, questi aspetti saranno trattati da autori successivi a Patanjali in modo più approfondito e sistematico. Come sappiamo, l'opera di Patanjali non entra nei dettagli, ma traccia delle linee guida.


YSIII:32. kurma nadyam sthairyam

Incentrando la pratica sull'energia che scorre nella colonna vertebrale, lo yogin realizza l'assoluta immobilità.


L'immobilità è essenziale per portare a termine una buona meditazione e spesso la scomodità della postura, la stanchezza o altri fattori portano ad effettuare dei movimenti che fanno regredire la condizione mentale raggiunta. Allo stesso modo è anche raccomandato da tutti i testi classici di mantenere la colonna vertebrale distesa ed allungata mentre ci si siede in meditazione. Questo sutra sembra in continuità con questa tradizione. Riassumendo: una buona pratica permette al prana di scorrere lungo tutti i chackra situati a vari livelli lungo la colonna vertebrale o nei suoi pressi, questa circolazione dell'energia porta il praticante a sedersi in meditazione con la schiena ben eretta, la giusta respirazione e a raggiungere la condizione di immobilità indispensabile alla meditazione stessa e al passo successivo, il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto.


YSIII:33. murdha jyotisi siddha darsanam

Incentrando la pratica sull'energia al culmine della testa, si acquista la capacità di entrare in contatto con la perfezione.


La parte terminale della testa è sede dell'ultimo chakra, sahasrara, il chakra dai mille petali. Questo chakra si attiva al momento della nascita quando l'energia vitale e lo spirito entrano nel corpo, al momento della loro dipartita e, secondo alcune tradizioni, durante l'illuminazione. Patanjali ci sta dicendo che lo scorrere dell'energia attraverso tutti i chakra, fino all'ultimo, è frutto di una pratica molto evoluta, che arriva a padroneggiare l'ultimo passo dell'ashtanga yoga ovvero il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto. Questo avviene proprio grazie al dischiudersi del chakra alla sommità del capo che permette il contatto con la perfezione dello spirito che tutto pervade. E' bene ricordare che, l'autore, per fusione con lo spirito assoluto, intende una condizione fisica, mentale e spirituale indotta dalla pratica, una pratica di qualità ottimale condotta da un praticante particolarmente abile, focalizzato e realizzato. Termina così, con questo ultimo passo, la disamina di Patanjali su prana e chakra.


YSIII:34. pratibhad va sarvam

Incentrando la pratica sull'intuizione, si comprende ogni cosa.


Ammetto di amare in modo particolare questo sutra e il successivo. Il termine pratibhad è stato tradotto come "intuizione" perché è sicuramente la parola che più si avvicina, seppure questo termine offra molte sfumature. Praibhad è l'intuizione femminile contrapposta all'intelletto maschile, è anche un nome proprio di donna traducibile come luce, intelligenza, ingenuità, splendore, come caratteristiche femminili. Alcuni intendono il termine come il superamento stesso della contrapposizione tra intelletto e intuizione. Questa interpretazione apre strade interessanti. La pratica yoga può sviluppare questo aspetto di intuizione creativa, in molti modi. Anni fa, parlando con alcuni yogin indiani di grande esperienza e dedizione, mi dicevano che spesso la mattina svolgevano la loro pratica abbandonandosi completamente, iniziando a gambe incrociate e concatenando ogni movimento al successivo ed ogni fase della pratica alla successiva secondo l'ispirazione inconscia del momento, in questo modo a volte giungevano ad uno stadio finale di meditazione particolarmente profondo ed ispirato. Mi piace pensare che Patanjali si riferisca a questo tipo di ispirazione, quella che riempe il cuore e illumina la pratica personale. Una pratica di questo tipo può gettare una nuova luce sulle nostre modalità di rapportarci allo yoga ma forse anche al mondo, dove la logica non è contrapposta alla preghiera, la scienza non è contrapposta alla poesia, dove mistica e razionalità, materialità e spiritualità si incontrano. Stiamo divagando. Più semplicemente potremmo dire che saper leggere le proprie intuizioni non è affatto semplice, ma la pratica può aiutare e le giuste intuizioni corrisponderanno poi a verità. Alcuni si fideranno ciecamente di esse, altri meno, altri riusciranno a superare il dualismo tra analisi compiuta dall'intelletto ed intuizione.


YSIII:35. hrdaye citta-samvit

Incentrando la pratica sul cuore, si ottiene la consapevolezza della natura della mente.


Il cuore corrisponde per Patanjali al chakra Anahata, situato al centro del petto, che potremmo definire il cuore spirituale, associato con il bilanciamento della personalità, la calma e la serenità, l'amore e la compassione verso gli altri. Ci sono molti tipi di pratica che possono stimolare questo plesso energetico, esercizi di respirazione, asana e meditazione, ma anche comportamenti sociali e verso noi stessi. Questo tipo di pratica fa comprendere esattamente cosa sia la mente. Per il termine mente (citta) qui l'autore usa esattamente lo stesso utilizzato nel primo sutra quando ci diceva che lo scopo dello yoga è arrestare le oscillazioni della mente. Quando si è in equilibrio e pervasi dall'amore si comprende che l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri è sbagliata, che la mente non è altro che un organo di senso come il naso o la lingua, l'organo di senso che permette di pensare, ma oltre i pensieri c'è molto altro.

In una tradizione diversa da quella induista ma con origini comuni, nella tradizione buddista, questo superamento del pensiero razionale è spesso rappresentato come una meditazione su concetti contraddittori: in molte storie, alla fine del percorso il maestro dice ad esempio al discepolo “vai e medita sul suono di un applauso con una mano sola, poi tra un anno torna e dimmi cosa hai capito”. Questo è il concetto di trascendere l'intelletto ed affidarsi allo spirito o all'intuizione. Non casualmente il termine Anahat (il nome del chakra del cuore) significa anche tintinnio prodotto tra due oggetti metallici, ma a volte è utilizzato per indicare il mistico suono senza suono chiamato anche Ahum. Quando tutti i suoni scompaiono sorge la vera natura dello spirito. Ci stiamo però spingendo troppo oltre: riassumendo l'autore, in tre parole, dice: “hrdaye (cuore) citta (mente) samvit (capire, consapevolezza)“, ovvero abbandonandosi al cuore, nella pratica ma non solo, si pone nella giusta prospettiva la mente e i pensieri. A ognuno la sua interpretazione finale. Credo che questo sutra parli con chiarezza anche a un occidentale dei nostri giorni.


YSIII:36 sattva purusayoh atyanta samkirnayoh pratyayaviseso bhogah para artha va sva arthasamyamat purussa jnanam

Le esperienze implicano percezioni nelle quali non si riesce a differenziare la coscienza dal mondo sensoriale, sebbene essi siano perfettamente distinti tra loro. Incentrando la pratica con perfetta disciplina sulla coscienza, si comprende la sua vera natura.


YSIII:37 tatah pratibha sravana vedana adarsa asvada varta jayante

In questo modo anche udito, tatto, vista, gusto e olfatto possono aiutare la capacità d'intuizione.


YSIII:38 te samadhav upasargah vyutthane siddhayah

I sensi sono utili allorché la mente è rivolta verso l'esterno, ma sono ostacoli sul cammino del samadhi, il ricongiungimento tra spirito individuale e spirito assoluto.


Questo sutra sembra in prima analisi molto speculativo e filosofico, semplicemente perché fa riferimento in modo stretto a tutto l'universo già descritto nei capitoli precedenti. Patanjali ha detto chiaramente che per raggiungere gli ultimi stadi dello yoga e quindi arrivare alla contemplazione dello spirito assoluto, al samadhi, bisogna distaccarsi dalle cose materiali, distaccarsi dai sentimenti e in ultima analisi dai sensi. Il ritiro dai sensi è infatti un passo fondamentale dell'ashtanga yoga. Grazie alla pratica possiamo diventare consapevoli di quali input siano originati dal mondo materiale esterno e quali dal nostro mondo interiore, dal mondo spirituale e dalle energie sottili. Questo è uno dei poteri raggiungibili attraverso lo yoga. Patanjali chiarisce poi un aspetto importante del suo pensiero che fino a questo punto non era forse emerso: ritiro dei sensi non significa in prima istanza cessazione dei sensi o completo assopimento degli organi preposti, ma rivolgere questi verso l'interno in modo che anche i sensi partecipino all'intuizione dello spirito. Questo processo lo sperimentiamo spesso ad esempio con il senso di calore che si percepisce provenire dal basso ventre, con il formicolare della pelle, con l'udire suoni o con il presentarsi di immagini, o molte altre sensazioni interiori che possono intervenire durante la nostra pratica e riguardo le quali la letteratura classica è particolarmente ricca.

Come è stato però precedentemente detto con chiarezza, il ritiro dei sensi deve essere superato con la meditazione e con la successiva fusione dello spirito.


YSIII:39 badnha karana saithilyat pracara-samvedanacca cittasya parasariravesah

Abbandonando le cause dell'attaccamento agli aspetti materiali e incanalando correttamente l'energia, prana, è possibile scoprire un nuovo corpo.


Il ritiro dei sensi e la cessazione della schiavitù all'attaccamento al piacere e alle momentanee soddisfazioni dei desideri, già analizzati nel secondo libro, ci permettono di scoprire un nuovo modo di sentire il nostro corpo, percependo una nuova corporeità. Questo è un dono prezioso e un concetto fondamentale: superando l'attaccamento e abbandonando l'uso tradizionale dei sensi, non si svilisce il corpo, ma se ne scopre una nuova funzionalità. Il corpo non è un'inutile o nociva appendice, ma il tempio dell'anima, il veicolo del prana e lo strumento che ci fa percepire lo spirito. Lo yoga di Patanjali conduce all'unione tra corpo, mente e spirito, non è lo svilimento del corpo e della mente per esaltare lo spirito. Per giungere a questa perfetta unione, certo, corpo e mente, con tutti gli aspetti che li riguardano, vanno ricondotti al giusto indirizzo.

Per completezza segnaliamo che la traduzione più comune di questo sutra è: ”Cessando l'attaccamento al regno fisico e divenendo sensibili alle correnti praniche, è possibile entrare nel corpo di un'altra persona”. Tralasciamo la traduzione parola per parola a supporto della nostra interpretazione, diremo che qualunque sia l'interpretazione del concetto di “entrare nel corpo di un'altro”: sia come vera e propria possessione psicofisica soprannaturale, sia come comunicazione a distanza, sia come pervasione da parte dello spirito del maestro del corpo dell'allievo, e così via. Risparmieremo al lettore anche le varie declinazioni e sfumature del concetto, questa traduzione è lontana da quello che abbiamo capito fino a questo punto dell'opera di Patanjali e lontana dal senso dei sutra immediatamente precedenti. Comunque la si ponga, la possessione ci sembra un'arte più da fachiri che non da yogin, intendendo il termine “fachiri” con l'accezione negativa data strumentalmente dai colonizzatori inglesi ad un certo tipo di sadhu o baba che loro dipingevano come dediti ad arti oscure. Non sappiamo se questa linea di pensiero abbia potuto influenzare le successive traduzioni in inglese, ma il discorso è troppo lungo e complesso per essere affrontato in questa sede.


YSIII:40 udana jayaat jala pankha kantakadisv asango 'tkrantisca

Padroneggiando il soffio vitale, o udana, il praticante è in grado di elevare il corpo sopra il fango, l'acqua stagnante o le spine e risollevarsi.


YSIII:41. samana-jayaj-jvalanam

Padroneggiando il soffio del plesso solare, o samana, il praticante diviene raggiante.


Il discorso di questi ultimi sutra sembra estremamente lineare e coerente. L'autore sta spiegando quali doni o poteri può conseguire il nostro corpo, la nostra mente e il nostro spirito, quando si padroneggi veramente a fondo la pratica, tanto da dominare i vari tipi di prana e i cinque soffi vitali che pervadono il corpo.

Udana vayu fluisce dalla base della gola alla sommità del capo, fluisce in tutte le direzioni e pervade il corpo intero trasportando il prana in ogni cellula, con il suo controllo il corpo secondo Patanjali nasce a nuova vita, una vita spirituale ed elevata, sopra le miserie materiali e morali, risorge a nuova bellezza. Molti traduttori intendono il sutra 40 come: “padroneggiando samana si conquista il potere della levitazione”. Non aggiungiamo altro.


Samana vayu è invece un tipo di soffio vitale che oscilla nello spazio tra l’ombelico e il diaframma, la cui sede a volte è fatta coincidere con il terzo chakra, Manipura. Avendo risollevato a nuova vita il nostro corpo attraverso il controllo e la gestione dell'energia vitale udana, successivamente, grazie al controllo di samana, il nostro corpo diviene radioso, raggiante, emana forza e bellezza. Tutti noi abbiamo presente il viso sorridente di un maestro dopo una lunga pratica, lo stupendo volto rilassato di un monaco tibetano dopo la meditazione, secondo noi Patanjali si riferisce a questo concetto, la pace interiore e la gioia spirituale divengono percepibili anche all'esterno di chi sa padroneggiare il plesso solare e la relativa circolazione del respiro e quindi dell'energia.


YSIII:42 srotra akasayoh sambandha samyamat divyam srotram

Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra l'udito e l'etere, si acquisisce un udito straordinario.


Da un punto di vista fisico, un suono è ascoltabile perché produce delle oscillazioni nell'etere che tutto circonda. Nel vuoto nessun suono si propaga. Traslando questo concetto, che serve a noi per capire, ma che Patanjali con tutta probabilità ignorava, da un punto di vista interiore, capendo come i suoni si propaghino al nostro interno, si acquisisce il potere di ascoltare l'energia che tutto pervade. E' un concetto che in prima analisi sembra molto astratto, ma nell'immaginario dell'autore non lo è. Già riguardo il sutra 37 avevamo avuto modo di esporre cosa si intenda per suono senza suono e udito mistico. Semplificando diciamo che attraverso i più alti livelli della pratica è possibile udire il mistico suono senza suono ovvero la contemplazione dell'assoluto, dell'Ahum, quel tipo sommo di meditazione dove anche tutti i sensi sono colmi della gioia dello spirito e si contemplano immagini che non sono immagini ma il nostro stesso spirito, così come si ascoltano suoni che non sono suoni. Questo è l'udito straordinario. Alcuni maestri indiani riferiscono di poter ascoltare il rumore prodotto dal circolare del prana all'interno del proprio corpo. Essendo il prana strettamente legato al respiro, questo non ci sorprende più di tanto, seppure, indagando maggiormente l'argomento, si capisce che non parlano esattamente del rumore del respiro, ma proprio di ciò che il respiro veicola.


YSIII:43 kayakasayoh sambandha samyamat laghu tula samapattesca akasa gamanam

Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra il corpo e l'etere, e incentrando la pratica sulla leggerezza, lo yogin è in grado di muoversi senza peso.


Grazie alla pratica si sperimenta la relazione tra il corpo e lo spazio, questo probabilmente è vero ad un livello più scontato ed elementare nelle asana e meno evidente e più complesso anche durante le fasi successive della pratica, dal pranayama alla meditazione, eccetera.

Una pratica avanzata permette quindi di padroneggiare perfettamente i movimenti del corpo nello spazio e la percezione del mondo che ci circonda. La leggerezza e l'elevazione del corpo e dello spirito, sono i doni che ne conseguono. Il concetto sembra piuttosto chiaro.

Alcuni interpretano questo sutra come la capacità di ottenere il potere di volare e muoversi attraverso lo spazio, coerentemente con la propria traduzione del sutra 40 dove si raggiungeva la levitazione. Seppure si discorda in questa sede con alcune linee interpretative, chi scrive, è inutile dirlo, ha il massimo rispetto per gli illustrissimi autori che hanno a volte dedicato a Patanjali parte della propria vita. I testi, ma anche le traduzioni e le interpretazioni degli stessi, sono sempre frutto del contesto storico-culturale nel quale vengono prodotti e al quale, per averne un'esatta comprensione, bisognerebbe ricondurli.


Gli ultimi dodici sutra che vedremo e chiudono il terzo libro, per alcuni praticanti rivestono un senso particolare e gettano una nuova luce sull'essenza profonda dello yoga. Non vogliamo dire che siano tutti di semplice e immediata comprensione, ma soffermandosi alcuni istanti su taluni passaggi e rapportandoli alla propria esperienza quotidiana di pratica, talvolta può iniziare un fruttuoso processo di approfondimento. Questa almeno è la testimonianza raccolta da diversi maestri.



YSIII:44.bahir akalpita vrttih maha videha tatah prakasa avarana ksayah

Entrando in contatto con lo stato di consapevolezza esistente all'esterno dei pensieri, e che pertanto è inconcepibile razionalmente, si raggiunge la grande conoscenza o mahavidya. Grazie ad essa cade il velo sul vero sè.


Grazie alla pratica dello yoga, in particolare durante gli ultimi stadi più meditativi, abbiamo detto si sperimenta la consapevolezza dello spirito al proprio interno, arrivando all'eliminazione delle oscillazioni della mente. In modo analogo è possibile sperimentare anche consapevolezza dello spirito al di fuori di noi, dello spirito che tutto pervade, ciò non avviene grazie alla mente o ai pensieri; il testo ci dice che tale consapevolezza è inconcepibile razionalmente. Questa rivelazione fa capire che la separazione attuata fino a questo punto nell'opera, tra spirito individuale, spirito assoluto e spirito che tutto pervade, non ha senso di esistere; anzi ha senso nella misura in cui diviene funzionale per arrivare a comprendere che lo spirito è uno. Noi uomini siamo un'unica entità e siamo della stessa essenza dello spirito. Yoga significa unione. Pausa. L'opera di Patanjali va metabolizzata, a nostro giudizio, proprio mediante la pratica. Forse non arriveremo mai ad una consapevolezza dello spirito che tutto pervade, interno ed esterno a noi, come ce la sta delineando in questi passaggi l'autore, tra i massimi doni dello yoga, ma qualche intuizione in questo senso potremmo averla colta o ricercarla in futuro.


YSIII:45. sthula svarupa suksma anvaya arthavattva samyamat bhutajayah

Incentrando la pratica sugli aspetti della materia: grossolani, sottili, intrinsechi e pervasivi, si ottiene la padronanza del proprio essere.


Siamo arrivati ai doni più profondi che la pratica dello yoga può regalare. L'autore invita a concentrare la pratica sulla realtà fisica tangibile e su quella intangibile nonché sugli aspetti nascosti e su quelli espliciti. Osservando al nostro interno le caratteristiche del mondo fisico e quindi distinguendo chiaramente da esso il mondo spirituale, otteniamo il controllo finale del nostro essere. Il discorso riprende il concetto del sutra precedente: la conoscenza dello spirito dentro di noi ed esterno a noi, anche in relazione al mondo materiale, ci fa capire chi siamo. Questo sutra è intimamento connesso con il concetto di Dharma, anche se non viene espressamente citato. In questo senso intenderemo gli aspetti della materia e il mondo fisico, come il mondo in cui le cose sono ovvero come la legge naturale. Per un approfondimento rimandiamo alla sterminata letteratura buddista, induista, janista e sikh in merito.


YSIII:46. tato anima adi pradurbhavah kayasampat tad dharanabhighatsca

Da qui si conseguono le altre perfezioni, quali la perfezione del corpo e la rimozione di tutti gli ostacoli.


47. rupa lavaṇya bala vajra samhananatvani kayasampat

Questa perfezione del corpo include bellezza, grazia, forza e fermezza.


Patanjali afferma che giunti a questo livello della pratica e raggiunte tutte le precedenti capacità, si arriva alla perfetta integrazione dei cinque corpi immaginati dalla tradizione ayurvedica, quindi di tutto l'essere, e si arriva , notate bene, alla rimozione degli ostacoli nella vita. Un essere illuminato difficilmente incontra ostacoli sul suo cammino, li ha già risolti dentro di sé. Siamo noi che creiamo i nostri stessi ostacoli: distaccàti dalle cose materiali e dalle emozioni, nulla può ostacolare la perfetta felicità. La tradizione indiana ritiene che i pensieri, ma più in generale il nostro modo di essere e di raffrontarci con il mondo, possano influenzare profondamente gli avvenimenti, persino, al limite, quando non direttamente correlati al nostro operato. Ovvero pensieri positivi possono generare fatti positivi oppure pensare ad un fatto come già accaduto, può concorrere a farlo realmente accadere. Il discorso potrebbe anche essere inteso in questo senso.

Come dicevamo, la perfezione del corpo, kaya sampat, è in realtà la perfezione dei cinque corpi ed il loro allineamento, così come immaginati dal pensiero classico indiano. Essi sono: Annamayakosa, il corpo grossolano; Pranamayakosa, il corpo energetico, Manomayakosa, il corpo mentale; Vijnanamayakosa, il corpo intellettuale e Anandamayakosa, il corpo della beatitudine. Le qualità raggiutne dalla perfezione di questi cinque corpi sembrano piuttosto chiare: bellezza, grazia, forza, fermezza. Sono qualità da intendere estese a tutti e cinque i corpi, quindi quando parliamo di bellezza, stiamo parlando di bellezza fisica, bellezza dell'energia che pervade il corpo, bellezza dei pensieri e dei ragionamenti e infine bellezza dell'illuminazione e della felicità raggiunta. La forza del fisico riflette la forza della mente, raggiunta grazie all'energia che lo pervade e con la quale raggiungiamo l'illuminazione. E così via.


YSIII:48. grahaṇa svarupa asmita avaya arthavattva samyamat indriya jayah

Incentrando la pratica sul potere cognitivo dei sensi, sulla loro vera natura, sul loro rapporto con l'ego e con la vitalità, si ottiene la loro padronanza.


YSIII:49. tato mano javitvam vikarana bhavah pradhana jayash cha

Da qui segue la percezione istantanea, la liberazione dai sensi stessi e la completa padronanza del mondo materiale.


YSIII:50. sattva purusha anyata khyatimatrasya sarva bhava adhishthatritvam sarva jnatritvam cha

La padronanza dei sensi e l'onniscienza possono essere conseguiti solamente comprendendo a pieno la differenza tra il mondo fisico e il vero sè.


Molti testi classici di yoga quando arrivano a descrivere i livelli più evoluti della pratica e le condizioni che si raggiungono, ricorrono a una descrizione fortemente metaforica, immaginifica, descrivendo coni di luce, l'intervento divino, lo stato di estasi; Patanjali non lo fa. Patanjali cerca di descrivere ogni passo, anzi ce lo descrive, in modo dettagliato, siamo noi che cerchiamo di interpretare esattamente cosa voglia comunicarci. Egli ci ha descritto un viaggio attraverso il risveglio dell'energia e lungo tutti e sette i chackra, compiuto grazie alla pratica costante e intensa. Patanjali ha affermato nei sutra precedenti, riassumendo, che conoscendo i sensi e la materia si raggiunge la perfezione del corpo e dello spirito. Ora aggiunge un ulteriore tassello, ovvero che dobbiamo approfondire e padroneggiare il potere cognitivo dei sensi. Abbiamo perso questo potere sia verso l'esterno, verso la natura, che verso l'interno, verso la nostra parte più intima, e, grazie alla pratica, dobbiamo risvegliarlo. Lo yoga, secondo Patanjali, non serve a disconnetterci dai sensi, ma ad incanalare il loro potere verso nuove strade, anche ampliandoli. Inizialmente ci ha detto che dobbiamo rivolgerli all'interno, poi successivamente superare gli input fisici che da essi provengono, ma alla fine possiamo goderne percependo grazie ad essi ciò che è spirito. Riflettiamo per un momento cosa voglia dire veramente incentrare la pratica sui sensi, tutti i sensi, ed utilizzarli per un tipo di conoscenza spirituale. E' un concetto molto elevato che può effettivamente dare un nuovo significato a tutta la pratica dello yoga. Per utilizzare una metafora, Ramkrishna diceva che per capire il potere dei sensi possiamo pensare alla differenza che passa tra toccare una tazza per portarla alla bocca, uso materiale dei sensi, e toccare la mano della persona che amiamo per portarla alla bocca, significato spirituale che deriva dai sensi. Questa immagine è molto evocativa e ci fa forse intuire una scintilla di cosa accade quando i sensi incontrano i sentimenti e trascendono la materia.


Capire il rapporto dei sensi, e dell'attaccamento al mondo materiale, con il nostro ego, concorre a conoscere la loro vera natura. La parola utilizzata per indicare l'ego è “asmita”, che indica propriamente l'ego inteso come l'io o l'essere. I sensi non hanno ego, l'ego risiede nella mente, è questo il tema da indagare grazie alla pratica: l'essere dei sensi che trascende l'ego. Spero di aver reso il concetto in modo diretto e non filosofico.

Infine, i sensi vanno riscoperti cercando di capire in cosa concorrano alla nostra vitalità, come percepiscano l'energia che ci tiene in vita, il prana, energia che dobbiamo riscoprire nel mondo. Si chiude così il cerchio con quanto già detto nei sutra precedenti riguardo allo yoga come disciplina per incanalare e risvegliare la coscienza dell'energia pranica.


Questa è la via per la liberazione dai sensi in quanto porta alla comprensione della distinzione che esiste tra la natura che ci circonda e il nostro intelletto da una parte e il nostro io più profondo (purusa) ovvero la nostra consapevolezza e lo spirito che tutto pervade dall'altra.


YSIII:51. tad vairagyad api dosa bija ksaye kaivalyam

Quando poi si è liberi dall'attaccamento a questi stessi poteri, si distrugge il seme che ci imprigiona. A questo punto segue la liberazione, kaivaiya.


YSIII:52. sthany upam nimantrane sanga smaya akaranam punar anishta prasangat

Si dovrebbe evitare qualsiasi attaccamento o orgoglio nei confronti dei poteri spirituali conseguiti, poiché questo porterebbe con sé la possibilità di risveglio di attitudini negative.


Patanjali inizia ad introdurre il tema del libro successivo, l'ultimo, quello che ha come argomento la liberazione, kaivaiya. Ci dice che non dobbiamo rimanere attaccati e vincolati neanche alla pratica stessa. Come molte altre arti, anche nello yoga, bisogna apprendere la tecnica, farla propria, dimenticarla e non preoccuparsi più del risultato. Ad un livello molto quotidiano, questo concetto significa anche non preoccuparsi di come appaiono le nostre asana; non preoccuparci se oggi non sentiamo le stesse stupende sensazioni durante la meditazione; in poche parole dobbiamo ignorare il risultato, perché la totalizzazione nella pratica stessa è il risultato. Quando arriviamo a questo livello otteniamo i poteri dello yoga perché la nostra gioia, la nostra illuminazione, non dipendono più da nulla. Ad un livello più alto, possiamo aggiungere che è sicuramente molto difficile abbandonare l'attaccamento verso il mondo materiale con le estenuanti tecniche descritto nel secondo libro, ma è ancora più difficile abbandonare l'attaccamento al mondo spirituale ed i poteri descritti nel presente capitolo. Quando si sia dischiusa questa porta, abbandonarla è quasi impossibile, ma ciò conduce alla liberazione finale. Le consapevolezze spirituali possono addirittura far risvegliare sentimenti di immodestia, risvegliare il nostro ego giudicante. Questa condizione, che tutti i maestri di yoga dovrebbero temere al massimo grado, può ritrascinare il praticante nell'abisso. Un maestro indiano, considerato un santo, diceva a me, che in quel momento ero l'ultimo degli uomini agli occhi di tutti i presenti: “io sono il tuo maestro, ma tu sei il mio maestro, io ti trasmetto il messaggio che tu mi permetti di vedere, grazie”, un discorso simile fa comprendere quanto gli Indiani aborriscano i discorsi autoreferenziali, l'auto esaltazione per la consapevolezza raggiunta, perché frutto del baratro dell'attaccamento quando non addirittura al mondo materiale, a quello spirituale. Al contrario la perfezione spirituale corrisponde alla massima umiltà, alla consapevolezza che nella perfezione dell'universo siamo un granello e che provare orgoglio per aver visto un poco oltre sarebbe ridicolo e ci rigetterebbe nell'attaccamento all’ego.


YSIII:53. ksana tat kramayoh samyamat vivekajam jnanam

Praticando nel momento presente si ottiene la conoscenza ultima della realtà.


Questo sutra è particolarmente chiaro per chi pratica yoga costantemente. Ogni fuga della mente in avanti o indietro durante la pratica, vanifica la pratica stessa. Ogni fuga verso sensazioni, percezioni o altro che abbiamo già provato è negativa e ostacola la pratica. Allo stesso modo l'attesa di qualcosa si tramuta in attaccamento. Qualcuno ha detto che l'atteggiamento dello yogin deve essere quello di uno spettatore senza spettacolo e credo che renda molto bene l'idea [Questa interpretazione viene data spesso al terzo sutra del primo libro, confronta YSI:3]. Patanjali ci ricorda che l'unico attimo che conta è quello presente, e si spinge un pochino oltre: ci ricorda che questa riflessione è una delle chiavi della pratica e porta alla vera conoscenza, jnana, che è la conoscenza ultima, la realizzazione che lo spirito individuale coincide con lo spirito assoluto eterno, non nato ed immortale. Contraendo sempre dippiù l'attimo presente, esso diviene l'unico attimo eterno che era, è e sarà. Ciò avviene nel samadhi, la ricongiunzione dello spirito individuale con lo spirito assoluto. Questa è l'ultima realtà, dopo c'è solo la liberazione. Il concetto non è da poco se si pensa che per il Vedanta, l'Jnana Yoga è uno dei quattro sentieri di base per raggiungere la salvezza (insieme a Bhakti Yoga, Raja Yoga e Karma Yoga). Ma ci siamo spinti molto oltre.


YSIII:54. jati laksana desaih anyata anavacchedat tulyayoh tatah pratipattih

Da qui nasce la capacità di distinguere tra oggetti simili che non possono essere differenziati da categorie, caratteristiche o posizione.


Avendo raggiunto la consapevolezza ultima, la conoscenza del tempo e del momento presente, il praticante di yoga è in grado di cogliere la vera essenza del mondo. Avendo compreso l'eternità si diviene capaci di conoscere le cose senza giudicarle dall'esterno, ma dalla loro profonda essenza. E' quindi possibile conoscere le persone per quello che sono realmente, immedesimarsi profondamente negli altri e non tentare più di conoscerle da come esse appaiono o si comportano. Questo concetto può essere esteso molto lontano.


YSIII:55. tarakam sarva visayam sarvatha visayam akramam ceti vivekajam jnanam

La conoscenza superiore nata da tale consapevolezza è trascendente e include la cognizione di tutta la realtà contemporaneamente, in qualsiasi direzione, nel passato, nel presente e nel futuro.


Questo ultimo gradino permette al praticante di fondersi con lo spirito universale trascendente che tutto pervade ed assimilarne l'eternità. Comprendere l'eternità sembrerebbe qui inteso equivalente a percepire l'eternità priva di dimensioni spaziali e temporali e perdersi nell'estasi dell'illuminazione. Si è saliti in questo momento sulla cima più alta, da cui è possibile vedere tutto il mondo che ci circonda, materiale e spirituale.


YSIII:56. sattva purusayoh suddhisamye kaivalyam

Si consegue la liberazione allorché esiste una eguale purezza tra se stessi, ovvero il purusha, e il mondo circostante, ovvero il sattva.


Gli occhi di colui che ha raggiunto la perfezione attraverso la pratica guardano il mondo per la prima volta, tutto appare puro e trasparente, lui stesso ed il mondo che lo circonda sono la medesima cosa.

Questi sono i doni che la pratica dello yoga, eseguita con intensità, costanza e determinazione può regalare, fino ai massimi gradi. Da questo punto prenderà le mosse il quarto libro il cui argomento sarà la liberazione.

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