Il riformismo neo-induista: il Brahmo Samaj

giugno 16, 2021



di Enrico Casagrande

Come spesso capita di affermare su questa rivista, l'Induismo, se così possiamo chiamare l'insieme di religioni praticate in India che rimandano ai Veda e ad un sistema di credenze più o meno uniformi, ha sempre influenzato lo yoga in molti e vari modi. Volendo prendere per buona la teoria che sostiene che le religioni Vediche si siano diffuse con l'invasione indoeuropea mentre lo yoga fosse un retaggio delle culture precedentemente insediate nell'area, le cosiddette culture dravidiche, ecco che tra lo yoga e l'induismo assistiamo ad un continuo scambio, così come tra le religioni antiche dell'India e quelle moderne.

Ecco che quindi assumono una particolare importanza le nuove forme religiose indiane che si diffondono durante il colonialismo inglese. Queste sicuramente avranno un peso enorme sulla forma che assumerà lo yoga nella sua declinazione e diffusione moderne. Enrico Casagrande ci fa esplorare oggi uno dei movimenti riformisti che più renderanno evidente questo fenomeno di osmosi inter-culturale.

Il XIX secolo e la nuova élite culturale indiana

La concezione un poco vaga che i non addetti ai lavori posseggono del termine induismo può essere individuata nella fase storica conosciuta come Rinascimento bengalese. Nel XIX secolo la dominazione britannica ha definitivamente sostituito l’impero Moghul. Gli inglesi reperiscono ampia parte delle risorse naturali funzionali al loro straordinario sviluppo industriale attraverso l’india ed in particolar modo Calcutta e il territorio del Bengala. La lingua inglese è in questo periodo utilizzata dall’élite amministrativa e commerciale indiana formata sia nella madrepatria che in Europa. Alcuni tra i nuovi middle men bengalesi iniziano a persuadersi dell’idea che la superiorità tecnico – scientifica dei colonizzatori sia da essere individuata nella “distanza” della loro cultura dalla religione intesa in questo caso come superstizione, idolatria e pratiche cultuali obsolete e inibenti il libero pensiero e le sue ovvie conseguenze nei confronti del progresso della persona e della società. La padronanza dell’inglese ed in taluni casi del greco antico e del latino degli indiani impiegati presso la East India Company favorisce tale processo grazie pure allo studio della storia e del pensiero filosofico europeo. Vengono al contempo individuate nelle Upanishad e nella Bhagavad Gita le vette della speculazione hindu evidenziandone la loro limitata pertinenza con le espressioni più popolari e, a loro avviso, limitanti del panorama culturale del subcontinente. Queste le premesse del nascente revivalismo hindu che aprono il sentiero che condurrà alla visione che tale cultura religiosa possiede secondo un’ampia porzione della contemporaneità.

Adattamenti religiosi

Alcuni intellettuali indiani dell’800, accondiscendenti con i dominatori inglesi e da questi incoraggiati mediante privilegi e favoritismi, stante quanto sin qui scritto, operano un processo di adattamento della loro cultura originaria che diviene un induismo dai tratti marcatamente etici e razionali. Il sistema delle caste inizia ad essere screditato così come ridimensionati i dogmi e la ritualistica. Le divergenze dottrinali tra darshana, tradizioni locali del vasto subcontinente e antiche divergenze di carattere teologico sono volutamente accantonate e confinate al più ai contesti di approfondimento specialistico. Le pubblicazioni dei primi tra questi riformatori filo-occidentali sono in lingua inglese e ciò attrae sempre più l’interesse degli intellettuali europei ma al contempo si crea un inevitabile distanziamento dalla cultura popolare indiana profondamente ancorata a tradizioni millenarie veicolate attraverso il parlato vernacolare. Questa sorta di neo–induismo non ridimensiona il culto delle icone e le “infinite” manifestazioni del divino sono esaltate come riferimento al un principio divino eterno già presente nella tradizione vedantica.
Il Rinascimento bengalese è perciò un fenomeno che va interpretato secondo due direttrici dal portato storico ben distinto: da una parte si assiste allo sviluppo di un processo di autoaffermazione dell’identità culturale indiana da sempre caratterizzata da una pluralità di espressioni che ne rendono complessa una sua definizione conclusiva; dall’altra parte, il fenomeno del Rinascimento bengalese rimane circoscritto ad un gruppo di intellettuali che posseggono gli strumenti per cogliere ragioni e forme del rinnovamento culturale da loro stessi avvertito come necessario a seguito del confronto con la cultura europea e da questo traggono benefici concreti. Le manifestazioni devozionali della religiosità popolare non vengono sfiorate dalla narrazione etica e razionalista anzidetta ed i limiti di un supposto rinnovamento culturale panindiano sono sufficientemente evidenti. Cionondimeno, il lavoro dei riformatori sedimenterà nel tempo, procederà a tratti in parallelo con i movimenti nazionalistici indiani che porteranno all’indipendenza dell’India del 1947.

Raja Ram Mohan Roy ed il Brahmo Samaj

È il 1828 quando viene fondato a Calcutta il Brahmo Samaj, la società di Dio. Il suo ispiratore e leader principale è il colto poliglotta e dipendente della East India Company Raja Ram Mohan Roy (1772 – 1883). Di famiglia shakta e vaishnava, Roy riceve la propria formazione universitaria presso l’Università di Patna, nell’attuale stato federato del Bihar. Quella di Patna è un’università di impronta musulmana che, oltre ad ampliare in questo senso l’orizzonte culturale di Roy contribuisce a creare nel futuro padre del riformismo hindu una visione anti – idolatrica e generalmente critica verso le espressioni devozionali del mondo religioso. Negli anni l’intellettuale traduce in bengali numerosi dialoghi platonici, opere di Aristotele e di Plotino e passi del Corano.
Roy vede nell’incontro tra il pensiero occidentale ed orientale, negli spunti offerti dal sufismo islamico e dal deismo europeo la possibile via per un ritorno razionale all’essenza delle Upanishad che costituirebbero a suo avviso il nucleo più autentico dell’induismo il quale dovrebbe riferirsi ad un unico essere divino eterno ed immutabile, il Brahman. Quest’ultimo è l’Essere verso il quale, a suo dire, si rivolge per sua natura l’essere umano prima ancora di costruire la propria identità dentro i vincoli della storia e dell’ethos di sua appartenenza.
Pratiche come il matrimonio infantile e il sati – la morte della vedova nel fuoco – sono, a dire di Roy, tra le massime espressioni di un inveterato travisamento degli hindu dell’autentico messaggio etico delle Upanishad. A tal proposito, nel 1829 Roy ottiene il suo grande successo in campo riformista contribuendo con i suoi proclami e con le sue richieste all’abolizione formale del sati da parte del governo britannico. Sempre al fondatore della Società di Dio va attribuita la prima manifestazione di impegno formale a sostegno della promozione di politiche educative che favorissero l’accesso di ogni classe sociale ad un dignitoso livello di scolarizzazione. Particolare impegno va riconosciuto a Roy nel portare la consapevolezza in India della necessità di integrare i curricola d’insegnamento con discipline tecnico – scientifiche al fine di aprire le menti delle giovani generazioni al futuro ed al benessere del loro paese.
Ricordiamo che Ram Mohan Roy trasse costantemente vantaggi dal suo ruolo di intermediatore culturale tra indiani ed occidentali, inizialmente fu infatti alle dipendenze della Compagnia delle Indie Orientali a vario titolo. Successivamente si occupò di aprire linee di credito bancarie per i facoltosi Inglesi che sfruttavano sconsideratamente le risorse dell'India, intrecciando ambizioni politiche, economiche e affaristiche con interessi filosofici e religiosi.
Ad ogni buon conto, quello del Brahmo Samaj è un movimento che prosegue la propria storia sino ai giorni nostri tramite personalità di tutto rilievo quali, tra i primi sodali della causa, il filosofo Debendranath Tagore (1817 – 1905), padre del premio Nobel per la letteratura Rabindranth Tagore (1861 – 1941), e il filosofo e teologo Keshab Chandra Sen (1838 – 1884). Tagore e Sen proseguiranno il lavoro riformista di Roy fino al momento in cui emergeranno divergenze di carattere filosofico – spirituale tra i due: il primo esplicita la necessità di allontanarsi da ogni elemento dottrinale cristiano presente nel movimento mentre il secondo arriva a sostenere la centralità della figura del Cristo come raccordo imprescindibile, grazie alla filosofia del perdono e del sacrificio personale, tra Oriente ed Occidente.

La critica al Brahmo Samaj

La frattura interna al Brahmo Samaj non ne depotenzia la forza socio – politica, dalle sue correnti proseguirà il processo di modernizzazione del mondo indiano. Critiche alla Società di Dio nascono al più da parte del mondo induista che riconosce la lontananza sociale dei padri riformisti dal popolo meno colto, ma anche dai pensatori più lontani dai dominatori inglesi, e afflitto da varie necessità, acuite proprio dallo sfruttamento del colonialismo. Critiche da parte di intellettuali contemporanei, vicini all’ortodossia, vengono rivolte sovente verso la Società di Roy cui non si perdonerebbe la vicinanza al mondo anglosassone all’epoca del suo apogeo coloniale. Egli incarna qui l’immagine del cosiddetto Brown Sahib, il sir “scuro”, che assimila e sostiene pensiero e cultura occidentali sebbene appoggi in apparenza la propria cultura d’origine. Certe perplessità evidenziate dall’ortodossia non appaiono infondate.
Cionondimeno, vengono ricolosciurti alcuni meriti al movimento fondato da Mohan Roy, come ad esempio il suo contributo alla formazione di una coscienza indiana nazionalista che vedrà, nell’arco di più di un secolo, differenti figure e movimenti alternarsi nell’impresa di condurre l’India all’indipendenza. È infine evidente come dall’opera di adattamento e semplificazione dei riformisti abbia mosso i primi passi l’immagine stessa dell’“induismo”, altrimenti di difficile identificazione nella tradizione indiana frammentata tra credo anche sostanzialmente diversi, un induismo comprensibile ed avvicinabile anche da parte di chi non ne possegga una sua diretta e profonda conoscenza: un induismo globale e contemporaneo.

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