Bhagavad Gita: Introduzione

aprile 15, 2019


  di Marco Sebastiani


La Bhagavad Gita e gli Yoga Sutra, sono i due pilastri antichi della disciplina dello yoga. Per chi è interessato alla tradizione sono entrambi imprescindibili.
Le due opere hanno tuttavia una serie di differenze. In primo luogo è diversa la forma, la Bhagavad Gita è molto più discorsiva e apparentemente chiara nei contenuti, che seguono una storia ed una narrazione, al contrario dei sutra di Patanjali, che espongono invece sintetici concetti filosofici. Nonostante ciò, i numerosi commenti che sono stati scritti sulla Bhagavad Gita espongono opinioni molto diverse anche sui concetti essenziali. La Gita è nauralmente letta come contenuto allegorico, ed il rapporto tra il suo protagonista, l'arciere Arjuna e il conducente del suo carro da battaglia, il dio Krishna, è identificato come il rapporto tra lo spirito individuale e lo spirito assoluto, riportando il discorso in un ambito molto vicino all'opera di Patanjali. I commentatori dei Vedanta, opera di cui la Gita fa parte, leggono però il rapporto tra il Sé e il Brahman nel testo, in modo completamente influenzato dalla propria visione del mondo: la scuola Advaita Vedanta vede nell'essenza dell'opera il non-dualismo di Atman (anima) e Brahman (spirito universale) , mentre le scuole Bhedabheda e Vishishtadvaita vedono Atman e Brahman come allo stesso tempo distinti e non distinti, in una sintesi tra questi due estremi a loro giudizio perfetta, e infine la scuola Dvaita li vede, assecondando la propria visione dualistica, come distinti.
Il rapporto tra spirito individuale e spirito assoluto è, secondo chi scrive,  l'aspetto più interessante ed universale per il praticante di yoga moderno, nucleo centrale che rende quest'opera globale e senza tempo. Seppure la Gita abbia innegabilmente una connotazione più "religiosa" e devozionale rispetto ai sutra di Patanjali, ci pone di fronte ad un'indagine introspettiva e ad un viaggio su di un percorso comune a tutti coloro che si pongono in cammino verso il terreno della spiritualità. L'approccio potrà essere più religioso appunto o più meccanicistico e materialistico, a seconda della formazione e delle idee ultime del lettore, o forse, ancora meglio, ci si potrà abbandonare al testo senza idee preconcette, analizzando solo alla fine come ci abbia arricchito questa meravigliosa lettura.
L'ambientazione della Gita in un campo di battaglia è stata interpretata da sempre come un'allegoria per le lotte etiche e morali, senza tempo, della vita umana.




Siamo consapevoli che un'opera tanto vasta e complessa, con alle spalle secoli di esegesi, non sia di facile approccio, ma riteniamo ci sia spazio per una nuova, accessibile, edizione della Gita, dedicata ai praticanti di yoga, proprio perchè vorremmo restituirne una traduzione il più lineare possibile, ma anche restituirne in primo piano il contenuto testuale, lasciando solamente in seconda battuta le interpretazioni filosofiche. Riteniamo che un'operazione di questo tipo possa essere di grande interesse per chi pratica oggi yoga, anche senza conoscere in dettaglio l'apparato filosofico induista.
Un breve commentario accompagnerà il testo, sia per evidenziare i temi principali sia in quanto la narrazione fa parte di una storia molto più ampia, circa la quale è spesso utile avere un'infarinatura. I personaggi sono inoltre molto numerosi e la memorizzazione dei loro nomi non è, in verità, per nulla banale.


Bhagavadgītā ( भगवद्गीता ) significa in sanscrito "Canto del Divino", o "Canto del Beato", Bhagavad è infatti uno dei nomi di Visnu o di Krishna, suo ottavo avatar.
Costituisce a sua volta una parte del sesto libro della Mahābhārata, immenso poema epico dell'India antica. La Gita è un'opera, composta di  di circa 700 versi, shloka, in quartine di ottenari, divisa in 18 canti, adhyāya, letture. Essa è parte integrante della narrazione e della trama della Mahābhārata, ma ha, per altri versi, un contenuto tipico e distintivo rispetto a questa, incentrato sui temi apparentemente religiosi del brahaman, lo spirito universale, e del karma, la conseguenza delle azioni proprie ed altrui.


Esistono varie versioni del testo, di cui quella da noi commentata, in 700 versi, è la cosiddetta vulgata, divenuta ormai "canonica", redatta e commentata da  Shankara nell'VIII secolo d.C. Delle altre versioni la più nota è quella cosiddetta kashmira, più lunga di un terzo e con qualche peculiarità.

Tutti i capitoli dell'opera hanno un titolo che fa riferimento allo yoga: Lo yoga della sofferenza, lo yoga della devozione, lo yoga dell'azione, etc. etc. così per tutti e 18 i canti. Si parla infatti del messaggio dell'opera come dello "yoga della Bhagavad Gita", in quanto, semplificando, tutta l'opera, in ogni suo capitolo, descrive l'unione, il ricongiungimento, yoga, tra Arjuna e Krishna, tra lo spirito individuale e lo spirito universale, tra athman, spirito individuale, e brahaman, spirito assoluto, attraverso diversi sentieri. 

La Bhagavadgita ha valore di testo sacro, ed è divenuto, nella storia, tra i testi più prestigiosi, diffusi e amati tra i fedeli dell'Induismo. In tale contesto è il testo sacro per eccellenza delle scuole vishnuite e krishnaite, ma è venerato come testo rivelato anche dagli shivaiti e dai seguaci dei culti shakta.
Per i seguaci di Krishna l'opera proviene direttamente dal Dio e la sua composizione è antica quanto il mondo.

Il testo viene datato nelle sue parti più antiche tra il al 500 AC e il 200 AC e dal punto di vista filologico sono state individuate tre stratificazioni temporali all'interno: la prima, di contenuto "epico", è la più antica; la seconda che riporta insegnamenti propri delle dottrine del Saṃkhya-Yoga (canti 2-5); la terza è la stratificazione "teista" legata al culto di Kṛṣṇa (canti 7-11), la quale trova, nel canto 12, un vero e proprio inno alla bhakti, la devozione verso la divinità.

La Bhagavad Gita presenta una sintesi  di idee sul dharma, la legge universale, sull concetto teistico di bhakti, ovvero la devozione verso lo spirito divino o universale, e sui percorsi yogici verso la moksha, la liberazione dal ciclo delle rinascite grazie alla perfezione spirituale.


La Bhagavad Gita ha sempre affascinato i suoi lettori, sia orientali che occidentali. Il punto che personalmente mi ha sempre lasciato sbalordito è la discreta somiglianza con l'Iliade di Omero:
  • Entrambe raccolgono una tradizione orale precedente, 
  • sono scritte all'incirca nello stesso periodo e hanno uno stile elevato,
  • sono in metrica, rispettivamente  ottenario ed esametro [NdR: il metro della Gita non si chiama formalmente ottenario, ma Anushtubh, ed è     formato da 32 sillabe. Queste sono però divise in 4 versi di 8 sillabe, per questo motivo è fortemente paragonabile all'ottenario e suona anche in modo molto simile]
  • sono scritte in una lingua che ha molti punti di contatto: alfabeto confrontabile, casi, declinazioni, coniugazioni, generi, etc. etc., nonchè alcuni termini in comune,
  • portano avanti un'epica guerresca, di eroismo e di glorificazione della guerra,
  • creano il mito dell'eroe guerriero
  • narrano una battaglia tra due fazioni opposte, 
  • intervengono prepotentemente eroi umani, eroi semidivini, nonchè gli dei in prima persona, 
  • è molto forte il concetto di fato e di destino, 
  • comunicano un insegnamento, 
  • hanno un epilogo tragico per entrambi gli schieramenti e per molti eroi giusti,
  • le ambientazioni sono simili: gli accampamenti, le città con mura, i campi di battaglia, etc.
  • le strategie di battaglia sono paragonabili,
  • gli strumenti di guerra sono simili: i carri da battaglia, gli auriga e gli arceri, gli scontri corpo a corpo, vari armamenti.
Si potrebbe sostenere che queste somiglianze rispondano a categorie che soggiacciono all'animo umano in modo universale, senza limiti di tempo e di spazio, ma così non è, in modo molto evidente. Sorprendentemente queste somiglianze non sono casuali, ma entrambe le opere furono scritte da popolazioni discendenti da un'unica tribù, insediata nelle steppe della Russia meridionale, che si spinse e colonizzò direttamente o indirettamente una vastissima area geografica, dall'India all'Europa. Queste sono le genti Ariane, o come si dice più correttamente ai nostri giorni: Indo-Europee, che sappiamo oggi condividere origini comuni, evidenti nelle lingue storiche e contemporanee, che spaziano appunto dal sanscrito al greco antico, alla quasi totalità delle lingue europee e indiane. Somiglianze che troviamo anche in altre opere epiche di genti indoeuropee come l'antichissimo Gilgamesh mesopotamico o le saghe germaniche. Non è tuttavia questa la sede per un'analisi dei pochi studi comparativi in merito e per spingere il discorso così lontano. Che questa eredità ci possa comunque rendere più consapevoli della fratellanza e dei valori comuni che intercorrono tra popoli un tempo lontani ed oggi più vicini.



Retroscena della Bhagavad-gita

La Bhagavad-gita è il dialogo tra Sri Krishna, Dio, Persona Suprema, e Arjuna, suo devoto, suo intimo amico e discepolo. Arjuna rivolge alcune domande a Krishna, che risponde presentandogli la scienza della realizzazione spirituale. Questo dialogo ha luogo durante una grande battaglia tra due opposte fazioni per il predominio sul grande regno indiano. Le due fazioni sono legate da vincoli di parentela nella più classica delle lotte fratricide di potere per il trono. Uno schieramento è virtuoso e mosso da ideali puri, l'altro è mosso dal desiderio di potere personale e da princìpi negativi, seppure tra le sue fila ci siano personaggi benemeriti mossi da ideali di fedeltà e rispetto.

La Bhagavad Gita fa parte della Mahabharata, che fu compilata secondo il mito da Sri Vyasadeva. La Mahabharata è la narrazione storica delle straordinarie imprese del grande re Bharata e dei suoi discendenti fino a giungere ai tre figli del re Vicitravirya: Dhritarastra, Pandu e Vidura. Dhritarastra, come figlio maggiore, avrebbe dovuto ereditare il trono, ma, a causa della sua cecità congenita, il potere toccò al fratello minore Pandu. Pandu ebbe cinque figli, Yudhisthira, Bhima, Arjuna, Nakula e Sahadeva; Dhritarastra ne ebbe cento, di cui il maggiore si chiamava Duryodhana. Dhritarastra non accettò mai la supremazia del giovane fratello e allevò i suoi figli animato dalla determinazione che un giorno essi avrebbero regnato sul mondo al posto dei Pandava, i figli di Pandu. Così Duryodhana e i suoi numerosi fratelli crebbero impregnati delle ambizioni paterne, del suo orgoglio e della sua avidità. Pandu morì prematuramente e i suoi figli furono affidati alle cure di Dhritarastra. Quest’ultimo attentò più volte alla loro vita e a quella della loro madre, Pritha, chiamata anche Kunti. Ma le congiure del cieco Dhritarastra furono sventate grazie soprattutto all' intervento di Vidura, zio dei Pandava, e alla protezione affettuosa di Krishna in persona. I guerrieri e i comandanti dell’epoca, gli ksatriya, osservavano un codice di cavalleria che proibiva loro di rifiutare una sfida al combattimento o al gioco. Abusando di questo codice, Duryodhana ingannò al gioco i cinque fratelli Pandava, sfruttando anche qualche debolezza del loro primogenito Yudhisthira, e riuscì a privarli del regno e perfino della libertà, costringendoli a un esilio di dodici anni. Trascorso questo periodo, i Pandava tornarono alla corte di Duryodhana per chiedergli un territorio su cui regnare, perché secondo il codice ksatriya un guerriero può svolgere soltanto la funzione di proteggere o di governare. I Pandava erano disposti ad accettare anche un solo villaggio, ma Duryodhana li schiacciò con disprezzo: non darà loro neanche la terra sufficiente a piantarvi un filo d’erba. Arjuna e i suoi fratelli, dopo l'ennesimo affronto, non ebbero altra scelta che ricorrere alle armi. Cominciò così una guerra di enormi proporzioni. Tutti i grandi guerrieri della Terra, si riunirono, chi per mettere sul trono Yudhisthira, il maggiore dei Pandava, chi per contrastarlo. Attaccarono battaglia a Kuruksetra, luogo molto noto dell'India del Nord, ad oriente del Punjab.

La lotta  durò solo diciotto giorni ma causò, secondo il mito, la morte di 640 milioni di uomini, il che ci fa intuire la portata del conflitto che l'opera vuole descrivere. Il poema descrive non solo come si conoscessero armi psichiche,  brahmastra, più sottili di quelle materiali, ma anche potenti armi convenzionali e altre ancora, che agivano sull’acqua, sull’aria e sul fuoco, tutte con un grande potere distruttivo. Ma, tornando ai primi istanti della battaglia, appena gli eserciti si riuniscono,  Krishna tenta d’intervenire in favore di una soluzione pacifica, ma trova Duryodhana deciso a governare la Terra a suo modo e pronto a disfarsi dei Pandava, la cui esistenza minacciava il suo diritto alla corona. I Pandava, puri,  devotie e con alte virtù morali, riconoscono Krishna come Dio, la Persona Suprema; mentre i figli di Dhritarastra, privi di tale virtù, non vedono la Sua natura divina. Krishna infatti si offre di partecipare alla battaglia, seppure in modo neutrale, rispettando i desideri degli schieramenti coinvolti: egli non combatterà di persona, ma ordinerà al Suo esercito di raggiungere il  campo di una fazione, mentre Lui stesso andrà nell’altro, dove agirà come consigliere. I Pandava scelgono di avere Krishna dalla loro parte come mentore e Duryodhana vede unirsi alle sue forze militari l’esercito del principe Krishna. Krishna diventa così il conduttore del carro del suo caro amico Arjuna. Inizia la Bhagavadgita. Gli eserciti sono schierati in ordine di combattimento e Dhritarastra, inquieto, chiede al suo segretario Sañjaya di descrivergli la situazione.

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