La natura rajasica del vinyasa

maggio 24, 2021



di Gian Renato Marchisio e Stefania Valbusa

La natura rajasica del vinyasa: energia creativa per affrontare la pratica e la vita.


Sugli effetti psicologici ed emotivi dell’ultimo anno e mezzo di vita “sospesa” a causa della pandemia sono già state scritte molte cose.

Indipendentemente dal fatto di essersi o meno ammalati di covid, il pesante cambio nelle abitudini di vita ha influenzato in varia misura ognuno di noi. L’utilizzo diffuso della mascherina, il distanziamento, le limitazioni alla vita sociale in tutti i suoi aspetti, il lavoro da casa o la perdita del lavoro… sono alcune delle circostanze che ci hanno portato a vivere in un perenne stato di sospensione, di attesa, condito dall’ansia per la malattia e le sue conseguenze, per l’aggravarsi delle condizioni economiche e per la sensazione di disgregazione del mondo fino ad ora conosciuto.



Dal punto di vista della pratica yoga, se alcuni praticanti sono riusciti a ritagliarsi tempi e modalità per portare avanti lo studio di asana, in autonomia o sotto la guida di insegnanti online, altri hanno patito la pressione esterna, il carico emotivo di preoccupazione ed ansia dovuto ad una situazione che si protrae ormai da molto tempo e hanno perso progressivamente l’appuntamento con la propria pratica.

Parlando con molti allievi è emerso che se nella normalità pre-pandemia si aveva l’impressione di crescere e progredire, in questo periodo sembra difficile trovare l’energia per muovere il corpo e la pratica, quando c’è, è quasi finalizzata ad un mantenimento del livello minimo di energia per vivere una vita quotidiana di incertezza.

Per molti quindi la pratica di asana, come altri aspetti della loro vita, sta vivendo un periodo di sospensione, attesa, dove già il mantenimento di un livello minimo richiede grande sforzo fisico, mentale ed energetico.

Abbiamo trovato molto interessante il lavoro di Stephen W. Porges sulla Teoria Polivagale (Porges, Stephen W., La teoria polivagale, Giovanni Fioriti, Roma 2014) che spiega la variabilità della frequenza cardiaca, modulata dal respiro, come misura del benessere di base e dell’equilibrio tra il sistema nervoso simpatico e parasimpatico: nell’inspirazione viene stimolato il sistema nervoso simpatico con aumento della frequenza cardiaca; nell’espirazione, attivando il nervo vago, viene invece stimolato il sistema nervoso parasimpatico che diminuisce la velocità del battito cardiaco. Quando il sistema nervoso è in equilibrio, con fluttuazioni regolari del battito cardiaco, siamo in grado di gestire le nostre reazioni agli eventi che si verificano nella nostra vita.

Partendo da queste riflessioni, possiamo intuire come lo yoga possa essere un valido supporto alla gestione di questo periodo critico, stimolando la nostra energia fisica e mentale.

Attraverso la pratica con una buona respirazione, infatti, manteniamo costanti le fluttuazioni del battito cardiaco e conferiamo equilibrio alle nostre reazioni agli eventi quotidiani, scegliendo la modalità di risposta agli stimoli.

Tuttavia, attivare il corpo in certi casi richiede uno sforzo iniziale notevole, un investimento energetico di base per superare lo stato tamasico, stagnante e passivo, attivando l’energia rajasica legata al movimento.

Nella yoga di Patanjali, lo schema interpretativo degli attributi della materia deriva dalla filosofia Samkhya: tamas, rajas e sattva sono guna, attributi della materia. Anche nella più antica Mahabharata molti sono i riferimenti ai guna. ( Vedi approfondimento in nota [1] )

Tamas, è l’elemento disgregante attribuito alla materia, che nella pratica yoga è rappresentato dagli elementi che resistono alla mobilità e quindi, a nostro giudizio, al vinyasa. Se in equilibrio con gli altri guna, è espresso dal radicamento come base dalla quale si sviluppa, attraverso la forza di rimbalzo, il movimento, rajas, verso sattva. Per sviluppare il movimento quindi, non si può prescindere da tamas perché sta alla base dell’energia rajasica che viene coinvolta per dirigerci verso la condizione sattvica. Tuttavia se questo guna predomina c’è totale inerzia. Se ci troviamo in uno stato tamasico, percepiamo che ci manca l’energia per impegnarci nelle nostre attività, ci manca la spinta per fare progetti e ci abbandoniamo a uno stato di passività che disgrega via via la qualità della nostra vita.

Rajas è energia, movimento, attività che può essere coinvolta per andare verso tamas, la disgregazione, oppure verso sattva. È il divenire, il movimento a tutti i livelli dell’essere. All’interno di rajas l’elemento aria si combina con l’elemento acqua, la fluidità, e con l’elemento fuoco, tapas. Rajas si esprime con l’energia che stimola l’attività della nostra vita: se creativa, ci spinge verso la progettualità, a vedere opportunità e soluzioni; se distruttiva, ci porta verso scelte dannose e disgreganti.

Sattva è intelligenza, luminosità, materia più pura, punto di equilibrio tra materia e spirito, esprime l’equilibrio della nostra componente più spirituale.

Nella sua Enciclopedia dello Yoga, Stefano Piano cita l’associazione delle tre qualità dei guna ad una simbologia legata alle divinità: Brahma rappresenta l’elemento creativo di rajas, di colore rosso; Vishnu rappresenta l’elemento sattvico bianco, il mantenere e preservare; Shiva rappresenta il tamas, nero o blu scuro, l’elemento disgregante e distruttivo (Piano, Stefano, Enciclopedia dello Yoga, Promolibri Magnanelli, Torino 1996). [2]

All’inizio dell’articolo abbiamo visto come, in certi periodi della nostra vita sia difficile stimolare l’azione e più facile lasciarci vivere dalla vita stessa assecondando atteggiamenti passivi e inerti. Di conseguenza, la pratica yoga è, dal nostro punto di vista, potenzialmente uno strumento di profondo cambiamento perché ci aiuta ad alzare il nostro livello di energia attivando la spinta rajasica all’azione.

Tuttavia, affinché la pratica apporti un valore aggiunto alla nostra vita, occorre che sia calibrata in modo da cercare l’equilibrio dei tre guna, bilanciando gli elementi, terra, aria, acqua e fuoco che nel Samkhya, base dello yoga classico, sono definiti, insieme all’etere, bhuta, principi elementari della materia.

Nell’universo dei praticanti yoga, può capitare di incontrare allievi con tendenze, a nostro parere molto tamasiche, fortemente radicati e resistenti al movimento, che aspirano alla condizione sattvica senza attivare il corpo, bypassando l’azione trasformatrice della pratica sugli elementi del corpo. All’opposto invece, soprattutto nella pratica dinamica, si possono incontrare praticanti interamente rajasici, sedotti dal movimento fine a se stesso e consumati dal fuoco della passione che spinge a voler acquisire più asana possibili il più velocemente possibile, senza equilibrio degli elementi.

Nella nostra esperienza di insegnanti, abbiamo notato che alla base dei due estremi di praticanti c’è un elemento comune, il non sentire: nel caso di praticante tamasico, manca il senso ed il piacere del movimento, il corpo è fissamente radicato; nel caso di praticante rajasico, il movimento è spesso unidirezionale e fine a se stesso, e talvolta si accompagna al volersi gettare nello sforzo di pratiche intense alla ricerca di sensazioni che altrimenti non si riescono a provare.

Osservando la tendenza propria di ogni praticante, ruolo dell’insegnante è, dal nostro punto di vista, quello di stimolare l’allievo, a partire dalla sua personalità di base, a sentire e sviluppare un percorso per equilibrare questi elementi.

Dalla nostra riflessione, un buon movimento rajasico nel vinyasa mette in equilibrio i vari elementi a partire da tamas, elemento terra, radicamento, base per sviluppare il senso e la plasticità del movimento verso la condizione sattvica. Quando l’energia rajasica nella pratica non è fine a se stessa ma tende verso sattva, questi elementi si combinano per bilanciare le dualità, gli opposti.

Quando il movimento ha un buon equilibrio fondato sul respiro, si modifica il modo in cui si accolgono le sensazioni interne e si esperisce l’ambiente esterno: il sistema nervoso autonomo è in equilibrio, mantenendo l’ascolto, prerogativa del sistema parasimpatico. Questo avviene quando la pratica è basata su un respiro lungo, profondo e dolce che all’interno della dinamica del movimento, agisce da ponte tra il sistema nervoso autonomo e il corpo, allineando i ritmi ‒ cardiaco, circolatorio, respiratorio e mentale ‒ con il ritmo, più lento, della terra.

Con il vinyasa allineiamo lo schema dei ritmi e equilibriamo gli elementi perché il nostro movimento è integrato e si fonda nel respiro. Con il respiro lungo e stabile agiamo sul corpo e sul sistema nervoso, coltivando quello che Dona Holleman ha chiamato il non fare del corpo e il non fare della mente. Coltiviamo la stabilitas cognitiva attraverso l’equilibrio di opposti.

Negli Yoga Sutra di Patanjali si parla di asana come stabile e confortevole. Federico Squarcini nel suo commentario agli Yoga Sutra (Squarcini, Federico, Patanjali, Yogasutra, Nuova Universale Einaudi, Torino 2015), offre un’interpretazione molto interessante di asana come stasi, situazione stabile, stato di inerzia al quale si approda dopo i primi due rami dello yoga, yama e niyama.

In questa prospettiva il concetto di stato di inerzia non ha l’accezione negativa che spesso gli viene attribuita nell’uso comune, bensì quella di calma vigile, equilibrio, sospensione rispetto all’andamento vorticoso, alle forze che premono sull’individuo dal punto di vista fisico, psicologico ed emotivo; si tratta di uno stato di interruzione delle pressioni interne ed esterne. Lo stato di inerzia si raggiunge quando i guna sono in equilibrio, l’elemento tamas e l’elemento rajas si bilanciano per arrivare a sattva.

Asana è quindi una peculiare maniera di stare: disciplinare i sensi nella posizione permette alla mente di dimorare in asana. Tuttavia, inizialmente la stasi in asana non è naturale ma richiede uno sforzo di attivazione. La stabilità e la confortevolezza in asana non sono immediate, e tale condizione di stasi ed equilibrio deriva da un processo di educazione, emerge da un modo di incanalare l’energia verso qualcosa attraverso la pratica. L’elemento rajasico è lo sforzo, che viene coltivato per ottenere la stasi, la cui natura è l’allentamento dello sforzo stesso, portandoci verso lo stato di inerzia di sattva dove la mente è stabile.

Sulla base di queste considerazioni abbiamo sviluppato un’interpretazione del significato di vinyasa, come energia rajasica, equilibrio dinamico del movimento che ci conduce verso questa stasi. Una pratica attraverso la forte volontà rajasica di fare le posizioni, se è utile come elemento iniziale per uscire dalla condizione abituale tamasica, va poi disciplinata per acquisire asana stessa come dimora, stabilitas, stato. Quindi l’iniziale energia rajasica richiesta per dare il via al processo, deve poi lasciare lo spazio al non fare, lo stato meditativo del corpo e della mente.

In questa prospettiva dinamica, dal nostro punto di vista, attraverso la pratica di asana educhiamo i sensi a vedere e percepire le cose per quello che sono e questo avviene quando la mente dimora nel momento presente, senza i filtri del passato che inquinano la percezione. Si tratta di uno stallo vigile, la capacità di fermare il meccanismo automatico “azione-reazione” agli stimoli esterni, che ci porterebbe a reagire alle cose secondo i nostri modi abituali; la forza di spezzare questo binomio e, attraverso la mente stabile, lasciar spazio a nuovi modi di ricordare e di reagire alle cose.

Attraverso il vinyasa quindi, combinando movimento e respiro, non solo attiviamo l’energia dinamica del corpo ma contribuiamo a portare equilibrio alla nostra mente attraverso l’esperienza dinamica di stasi coltivata nella forma di asana. Apriamo così l’orizzonte a nuovi modi di pensare e di vedere le prospettive della nostra vita sottraendoci ai filtri mentali pregressi che mediano il rapporto con noi stessi e coltivando viveka khyati, il discernimento volto alla discriminazione, alla scelta consapevole.

NOTE

[1] a riguardo confronta:  Larson, Gerald James. Classical Samkhya: An Interpretation. Inoltre, è opinione di di Surendranath Dasgupta che questi aspetti primordiali della scuola Samkhya possano essere visti nel Caraka Samhita e nelle dottrine del Pancasikha. Questa scuola accettava però solo ventiquattro principi,  includendo il purusa nell'avyakta prakrti. Non aveva quindi una vera e propria teoria dei guna, e lo stato di salvezza finale era una sorta di annientamento inconscio.
Confronta anche Mahabharata 12.CCCXX:1-3
1     Bhīṣma disse:“ così queste parole avendo pronunciato il ṛṣi brahmano, dal grandissimo tapas,Śuka procedeva verso la perfezione, abbandonando i quattro modi mondani,
2     abbandonati gli otto tipi di tamas, rinunciava ai cinque tipi di rajas, quindi quel saggio rinunciava al sattva, e questo appariva un portento,
3     poi in quella sede eterna, priva dei guṇa, e priva di ogni segno, nel brahman risiedeva splendendo come un fuoco senza fumo,

e Mahabharata 12.CCCXXI: 27-31
27     il signore beato disse:' non si deve parlare di questo mio eterno segreto, ma lo dirò secondo verità a te o brahmano, che sei pieno di fede,
28     quanto è sottile, inconoscibile, immanifesto, incrollabile, eterno, privo dei sensi, degli oggetti dei sensi e da tutti gli elementi,
29     egli anima interiore degli esseri, è chiamato kṣetrajña, privo dei tre guṇa, egli è chiamato il Puruṣa, da lui viene l'immanifesto dotato dei tre guṇa o migliore dei ri-nati,
30     la prakṛti imperitura, che è immanifesta è sta nelle nature manifeste, sappi che essa è l'origine di noi due, e chi ha natura dell'essere e del non-essere, da noi due è venerato essendo egli il dio e l'avo,
31     non vi è altro padre o dio, o ri-nato superiore a lui, noi lo riconosciamo come l'anima, e quindi lo veneriamo...

e ancora Mahabharata 12.CCCXXVI:18-34,53-54,64-68
Bhīṣma disse:
“ così essendosi mostrato a Nārada figlio di Parameṣṭhin, di nuovo gli diceva queste parole: ' vai o Nārada, senza indugio,
18     questi miei devoti privi dei sensi e del dover nutrirsi, e splendidi come lune, con una sola mente pensano a me, per loro non vi sarà mai agitazione,
19     perfetti e di grande gloria un tempo erano devoti solo a me,
e liberi da tamas e rajas entreranno in me senza alcun dubbio.
20     egli è non visibile cogli occhi, non toccabile col tatto, non si può sentire coll'olfatto, ed è privo di ogni gusto,
21     sattva, rajas, e tamas, questi guṇa non lo toccano, lui che è il testimone che va ovunque, è chiamato l'anima del mondo,
22     nella distruzione dei corpi di tutti gli esseri, non va distrutto, non nato, eterno, perenne, privo di qualità, e indivisibile,
23     al di là delle ventiquattro tattva, e lui che è chiamato il venticinque, e chiamato il Puruṣa, l'immoto, si può vedere solo colla conoscenza,
24     entrando in lui ottengono quaggiù la liberazione o ottimo ri-nato, egli è conosciuto come Vāsudeva, l'eterno, l'anima suprema,
25     guarda la grandezza e la potenza del dio o Nārada, che non è toccato mai dalle azioni buone e cattive,
26     sattva, rajas e tamas sone chiamati i tre guṇa, essi si trovano ed agiscono in tutti i corpi,
27     di questi guṇa lo kṣetrajña gode, e non è toccato da essi, privo dei guṇa, gode dei guṇa, lui è il creatore dei guṇa e il suo signore,
28     la terra fondamento del mondo o divino ṛṣi, si dissolve nelle acque, le acque si dissolvono nella luce, e la luce si dissolve nel vento,
29     e il vento va a dissolversi nello spazio, e lo spazio nella mente, la mente è il supremo elemento e si dissolve nell'immanifesto,
30     e l'immanifesto si dissolve nel puruṣa immoto o brahmano,  non vi è nulla superiore al puruṣa eterno,
31     non vi è nessun essere mobile o immobile al mondo che sia eterno, eccetto il solo Puruṣa il perenne Vāsudeva, il fortissimo Vāsudeva è l'anima di tutti gli esseri,
32     terra, vento, spazio, acqua e luce per quinta, tutte queste riunite sono conosciute come il corpo del grand'anima,
33     e lui che entra o brahmano, invisibile e di sottile passo, quel potente e così nato fa muovere il corpo,
34     senza la combinazione degli elementi non vi è il corpo, né senza l'anima o brahmano, questi elementi sono mossi
...
53     guarda in cielo Dhruva la migliore delle stelle o Nārada, le nuvole, e i mari e i fiumi e i laghi,
54     e guarda le quattro schiere dei padri nel loro aspetto o virtuoso, e guarda in me questi tre guṇa privi di forma
...
64     Sana, Sanatsujāta, Sanaka, Sanandana, Sanatkumāra, Kapila e Sanātana per settimo,
65     questi sette ṛṣi sono detti i figli della mente di Brahmā, sapienti per propria natura, intenti nel dharma della rinuncia,
66     essi sono i principali sapienti dello yoga, e della dottrina sāṃkhya, maestri dei trattati sulla liberazione, che praticano la dottrina della liberazione,
67    da qui io fui creato, e un tempo dall'immanifesto lo furono i tre guṇa, e quello che è lo kṣetrajña è stabilito ad esso superiore, questo io sono, la via di chi agisce è ardua da ripetere,
68     nel modo in cui è creato il vivente per le sue propria azioni, dell'agire o della rinuncia, volente o nolente ottiene il frutto...

[2] Confronta Bhagavad Gita 7.13:
"Deluso dai tre guna, il mondo intero non conosce Me, che sono al di sopra dei guna e inesauribile."

e Swami Nikhiliananda, in Hinduism : Its Meaning for the Liberation of the Spirit, ...con riferimento alle sue tre attività di creazione, conservazione e distruzione, Saguna Brahman è noto rispettivamente come Brahma, Vishnu e Rudra, o Siva. Questi formano la Trimurti, la trinità dell'induismo. L'influenza di rajas si vede nella creazione, di sattva nella conservazione e di tamas nella distruzione.

Kalidasa, il grande drammaturgo indù scrive: "Ciò che, prima della creazione, è il Brahman non duale, diventa soggetto a maya e assume, in associazione con i tre upadhi (guna), le forme di Brahma, Vishnu e Siva."

Potrebbe anche piacerti:

0 commenti

Yoga Magazine Italia 2017 © - Tutti i Diritti Riservati