5 qualità di un praticante avanzato

luglio 19, 2018



 di Maria Sabatini 


Chiariamo subito che un praticante non si definisce avanzato perché esegue  posizioni più difficili. Questo fraintendimento viene ingenerato dalle le lezioni in sala, che sono classificate spesso secondo vari livelli, con crescenti difficoltà delle posizioni.  D'accordo, questo approccio è funzionale a capire subito la difficoltà tecnica della lezione e non si vuole criticare questa indicazione, ma chiamarli "livelli" confonde, tanto più che a questi livelli corrisponde spesso la dicitura "per tutti", "intermedio" e "avanzato".  Il termine "per tutti" mi ha sempre fatto ridere, immaginavo bambini, persone anziane, donne incinte, culturisti, tutti nella stessa classe. Questa scelta terminologica ha purtroppo una causa profonda: dal nostro lessico è stato bandito il termine "principianti", perché ingenera frustrazione. L'approccio competitivo che tendiamo a riportare in ogni contesto fa si che la condizione di principiante sia percepita come fortemente negativa, equivalente a "scarso" o "incapace". In realtà siamo tutti principianti di un certo percorso. Spostando in là la prospettiva tante volte si ricomincia da capo, si vede che l'orizzonte è molto più lontano di quanto credessimo e che siamo soltanto all'inizio, al principio appunto. Crea molte motivazioni iniziare un'avventura, una via e non dovrebbe generare stress, anzi.



Mi è capitato di frequentare lezioni a New York, in almeno un paio di sale yoga, ad es. pure yoga e yogaworks, dove l'aspetto competitivo vibrava nell'aria. I partecipanti erano disposti in stretto ordine gerarchico, dai più avanzati, atleticamente capaci, che erano avanti, fino a quelli meno "bravi" nelle ultime fila. Essendo io nuova e mettendomi dove capitava, in genere davanti per vedere meglio l'insegnante, sconvolgevo i piani di "quelli bravi" che mi scrutavano nel riscaldamento iniziale, prima che iniziasse la lezione, per cercare di capire se fossi un impostore. Non sono una persona timida e la situazione mi divertiva parecchio: con il tempo avevo capito che, aspettando l'insegnante, l'approccio migliore era sedere a gambe incrociate immobili, senza lasciar trapelare la propria preparazione atletica, cosa che portava ad impazzire letteralmente i competitivi compagni di pratica e ad avere tutti gli occhi puntati addosso per buona parte della lezione. Durante le posizioni di picco, rigorosamente inserite in tutte le lezioni, verso i tre quarti della durata complessiva, c'erano occhiate di sfida, sguardi di rassegnazione, imprecazioni, giustificazioni e palesi esultanze.  Tutto molto divertente, ma questo approccio va a discapito della pratica. In prima analisi si è portati fuori da se stessi e dalla propria interiorità, in secondo luogo questo atteggiamento accresce a dismisura l'ego delle persone sia che le posizioni riescano oppure no. Il tutto risulta simile ad un esercizio ginnico e nulla più, gli aspetti più belli e profondi sono completamente trascurati. Questa è chiaramente la mia opinione personale, non una verità o la mia spiegazione di cosa sia lo yoga, ognuno troverà la propria strada, ma, personalmente, questo approccio mi sembra escluda un piano di pratica che sento come più ricco.


Il praticante avanzato non è quindi quello che compie perfettamente le posizioni più difficili. Non è complicato capire tra un ginnasta alle prime armi e un monaco di 60 anni chi sia il praticante avanzato e chi il principiante, seppure l'approccio alle posizioni possa essere sfavorevole al secondo.  Non si vuole però svilire la pratica fisica o contrapporre pratica fisica e pratica meditativa, non è mai stato il mio percorso, le due cose sono strettamente legate. Anche il ragionamento inverso è riduttivo e tipico di certe scuole: il praticante avanzato non è necessariamente quello che si siede a gambe incrociate immmobile ed esegue al massimo qualche posizione per sgranchire le gambe. Conosco personalmente sadhu, monaci rinuciatari indiani, ad esempio Khokan Adikari,  che eseguono alla perfezione Karandavasana, l'inversione in equilibrio sugli avambracci con le gambe incrociate nel loto,  o molte altre posizioni "estreme", e che dedicano una parte del loro tempo a perfezionarsi in posizioni e sequenze che richiedono anni per essere padroneggiate. Ma quali sono quindi le caratteristiche di un praticante avanzato?


1. E' focalizzato al 100%

Lo yoga ci da la possibilità di svuotare la mente per un determinato un lasso di tempo. Chi ha una pratica più avanzata riesce a raggiungere questa condizione prima, all'inizio della pratica. Un bravo insegnante aiuta  le persone che seguono la pratica a raggiungere più in fretta questa condizione. Un praticante avanzato sa che l'aspetto più importante, aspettando l'inizio della lezione, non è tanto scaldare i tendini, ma entrare nella giusta disposizione d'animo. Quando vedo persone che aspettano sul tappetino chattando con il telefonino o agitandosi o chiacchierando animatamente, capisco che i primi venti minuti dovranno essere dedicati a togliere dalla loro mente quelle immagini, e a portare poi l'attenzione  soltanto ai movimenti e al respiro. Un praticante alle prime armi potrebbe non trovare questa condizione, se non, forse, alla fine, in savasana. Ma l'obiettivo durante la pratica deve essere questo: essere con i pensieri lì, ora, in quel momento e da nessuna altra parte. Per fare questo l'integrazione tra respiro, movimenti e dristhi, punto di attenzione verso il quale si guarda durante le posizioni, è fondamentale. E ben venga la musica, l'incenso o l'illuminazione soffusa se può aiutare  a rivolgere i sensi verso l'interno e a trovare questa focalizzazione. Allo stesso modo bisogna stare attenti, a mio modestissimo avviso, a non riempire le lezioni con troppe parole, che portano i praticanti in una condizione più mentale che non di integrazione. Secondo me, meglio perdersi un allineamento del corpo, che non un secondo di perfetta integrazione e eliminazione delle oscillazioni della mente. Un praticante avanzato è focalizzato e concentrato dall'inizio alla fine.



2. Ha la giusta respirazione

Lo stile di respirazione cambia un pochino tra uno stile di yoga ed un altro, a seconda che questo sia più statico o più dinamico, ma, in tutte le tipologie, il respiro è lungo e completo. Sappiamo che la respirazione condiziona lo stato d'animo e viceversa. Quando siamo eccitati il respiro si fa corto, le pulsazioni aumentano, le pupille si stringono, il corpo rilascia adrenalina e altri ormoni per prepararci a combattere; il problema è che non siamo nella savana a caccia di lupi, ma più facilmente ci troveremo in macchina o dietro ad una scrivania. Questa condizione di attivazione o di stress, spesso diviene cronica. Un modo molto efficace per interromperla è iniziare ad allungare e a rendere completo il nostro respiro, facendo scendere e salire in profondità il diaframma, svuotando e riempiendo di aria fresca i polmoni, il tutto lentamente e con consapevolezza. Proseguendo con l'esperienza, questo tipo di respirazione, protratto durante tutta la pratica, permette di entrare in uno stato meditativo già mentre si eseguono le posizioni. Alcune scuole raccomandano di mantenere la respirazione ujjay durante tutte le asana. Questo tipo di tecnica, aggiunge un rumore costante in espirazione ed in espirazione al precedente tipo di respiro, i testi classici dicono che il suono sia come l'infrangersi della risacca del mare, ma viene provocato dal passaggio dell'aria con una leggera contrazione della glottide. Questo rumore aiuta ancora di più a raggiungere questo stato meditativo e facilita l'aumento della durata dell'atto respiratorio. Ci porta più in profondità. Nelle estensioni, nei backbend, sarò portato ad inspirare, nelle flessioni, nelle torsioni, ad espirare, in una fantastica sincronia ed anche nelle posizioni che si protraggono per più respiri entrerò ed uscirò dalla posa assecondando questa danza del respiro.
Inspirazione, prana, e espirazione, apana; espnansione e contrazione, sono il fulcro di molti testi classici della tradizione, tantrici ed anche più antichi, ma non vorrei arrivare troppo lontano.

3. Conosce la giusta intensità delle posizioni per se stesso

Quale è la giusta intensità di una posizione? quando mi devo fermare? devo arrivare con la fronte alle ginocchia o fermarmi prima? Non è facile rispondere a questa domanda ed è molto personale. Alcune scuole dicono di praticare al 75% del proprio massimo, ma secondo me ha poco senso. A mio modesto avviso la giusta intensità di una posizione è quella che mi porta completamente al mio interno, a percepire tutti i sensi, tutto il corpo, ma senza che un dolore mi riporti verso l'esterno. Posso capire che, detta in questo modo, sembri tutto molto teorico, ma non lo è. Sappiamo che tante posizioni hanno una serie di varianti infinita, da una prima versione che per alcuni risulta semplice, fino ad arrivare a versioni che sembrano impossibili. Un buon esempio può essere pachimottanasana, il piegamento in avanti da seduti. Una prima versione può essere con le mani sulle ginocchia e le gambe semi flesse, per poi proseguire portando le mani sempre più avanti distendendo le gambe, arrivando poi con le mani dietro i piedi, per poi arrivare a eka pada sirsasana, ovvero allungarsi su una gamba con l'altro piede dietro la testa, poi si portano tutti e due i piedi dietro la testa, eccetera. Una versione per noi troppo leggera non ci impegna fisicamente e facilmente ci lascerà "nella mente", senza farci percepire l'integrazione con il corpo, senza assorbire completamente la nostra attenzione. Sul fronte opposto, l'ego tenderà a farci forzare troppo, per dimostrare a noi stessi di essere "praticanti avanzati", ma il dolore o lo sforzo che ne risulterà interromperà lo stato di armonia, benessere, concentrazione nel respiro, facendoci andare in apnea o in affanno. Qui capiremo di aver sbagliato intensità. Il praticante avanzato sa scegliere tra le diverse varianti, e non seleziona "la più difficile che a volte riesco a fare", come spesso accade, ma quella che darà la giusta sensazione che lo porterà ad avere tutta l'attenzione al corpo ed al respiro, ma senza arrivare oltre.
Ma chi meglio del sommo Patanjali ha descritto questo passaggio? (cfr.: Yoga Sutra libro II)

YSII:46-47. sthira sukham asanam | prayatna saithilya ananta samapatti bhyam
Le asana, o posizioni, sono solide e gioiose. Questo avviene abbandonando ogni sforzo e unendosi con l'infinito.

Sappiamo che per Patanjali la pratica deve essere intensa (tapah), ma a completamento del quadro d’insieme le asana devono mirare a diventare solide e comode, non devono indurre sofferenza al corpo, ma essere stabili e confortevoli. Viene affermato che stabilità e semplicità di esecuzione si realizzano abbandonando lo sforzo verso uno scopo,  prayatna, quindi presumibilmente, precedentemente l'intensità richiesta era dovuta in parte ad uno sforzo e ad uno scopo, che però si deve mirare ad abbandonare e a trascendere. Sukham è la forza che nasce dalla stabilità. Cercando una sintesi potremmo dire che la pratica deve andare verso l'intensità, nella stabilità e mai verso la tensione. Secondo questo precetto si avrà un'evoluzione naturale verso posizioni che portano il corpo ad una maggiore intensità qualora si raggiunga una mancanza di intensità, ma mirando sempre ad una stabile e forte esecuzione. E' anche chiaro che in questa ottica, non esistono due persone che eseguiranno la stessa posizione allo stesso modo e che solamente noi stessi possiamo capire la giusta intensità.



4. Usa i bandha

Un maestro indiano, Swami Ananda Saraswati,  una volta mi disse che durante le asana, per capire se avevo di fronte un praticante esperto, cosa che quando si conduce la pratica può essere innegabilmente utile, dovevo fare caso alla cintura dei pantaloni, all'elastico dei pantaloncini diremmo noi. Se l'addome rientra leggermente dietro l'elastico significa che la persona sta contraendo mulabandha, ovvero il pavimento pelvico e questa contrazione lo sta portando al naturale ingaggio anche di uddhijanabandha, ovvero la contrazione della parte bassa degli addominali, verso il pube. Onestamente non sono mai stata capace di fare questa valutazione secondo questa procedura, ma per lui era la prima cosa per valutare se poter far eseguire alcune posizioni più avanzate ai praticanti. Anche il suo concetto di posizioni avanzate era un po' diverso da quello che ha la maggior parte delle persone, lui ne faceva una questione energetica, assegnando alle asana una maggiore o minore intensità nel convogliare l'energia, che poi spesso, ma non sempre, coincideva con un maggiore impegno o difficoltà.
Per molto tempo l'uso dei bandha è stato per me un noioso esercizio fine a se stesso, lo riconosco, poi ho osservato che in alcune posizioni poteva fare la differenza tra il riuscire oppure no. Ricordo che la prima è stata bakasana, la sospensione sulle mani con le ginocchia sopra i gomiti. Contraendo con fermezza i bandha magicamente mi alzavo sulle mani e le ginocchia arrivavano sempre più vicine alle ascelle. Da qui ho iniziato a rivedere una serie di posizioni, o transizioni, che non mi riuscivano oppure ad osservare come cambiasse l'ingresso nella posizione e a vedere i miglioramenti con l'ingaggio dei bandha. Sorprendente!

5. Ha un'espressione felice

L'espressione del viso può sembrare un aspetto frivolo o di poca importanza, ma, a mio giudizio, dice più di ogni altra cosa dove sia in quel momento il praticante. Se una persona è distratta o con la mente altrove lo vediamo subito, avrà gli occhi che si posano da un punto all'altro. Se sta soffrendo, sta spingendosi troppo oltre in una posizione oppure se è frustrata dall'esito delle sue asana, ce ne accorgeremo dall'espressione corrucciata. Proprio ieri praticavo con un amico, un maestro di Roma, che durante l'esecuzione di padmasana, la posizione del loto, a gambe incrociate, ha detto: "Il mio maestro indiano diceva che in padmasana dobbiamo assumere le sembianze della statua di Shiva a Rishikesh: schiena eretta, mento parallelo al terreno, chin mudra [indice e pollice che si toccano sopra le ginocchia NdR] e un sorrisetto stampato sul volto", abbiamo tutti riso a quell'indicazione, lui per primo, ma poi ci ho ripensato molto a lungo alla bellezza di quel suggerimento. Perchè Shiva o il Buddha, in posizione meditativa sorridono? non sono distaccati completamente dalle emozioni? Sorridono perché le possibilità e la meraviglia del momento presente li entusiasmano. Sono totalmente presenti per godersi la gloria del momento presente. La loro lezione ci insegna a essere presenti nel qui e ora ed a godere di questa sensazione, senza preoccupazioni per il futuro e rielaborazioni del passato. Al dissolversi dei pensieri risulta chiaro che ad osservare non è più la mente, ma il nostro spirito e questo ci porta ad una sensazione di estasi. Molte persone hanno questo approccio durante la pratica, una pratica molto avanzata, e lo possiamo vedere subito, dagli occhi che sorridono.

fig.1 Una delle famose statue di Shiva a Rishikesh


 Mi rendo conto, rileggendo questo articolo, di aver descritto 5 qualità di una pratica molto avanzata, alla quale probabilmente tutti noi aspiriamo. Ma mi auguro che, avendo questi punti ben saldi nella mente, la nostra pratica possa progredire o quantomeno mi auguro di aver sfatato il mito che un praticante avanzato esegua posizioni difficili. Le posizioni difficili sono al nostro servizio, non noi al loro, per crescere di intensità nella pratica, qualora ce ne sia bisogno.







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