Hata Yoga Pradipika: La posizione perfetta [HYP1:33-43]

giugno 27, 2018



 di Marco Sebastiani


L'asana che più di ogni altra è importante, secondo Svatmarama, è siddhasana, la posizione perfetta: seduti con i talloni all'inguine. Questa posizione, come vedremo, stimola al massimo grado il fluire dell'energia kundalini all'interno del corpo, fine ultimo del suo sistema di yoga. Svatmarama raccoglie una tradizione molto antica, le prime e più antiche rappresentazioni artistiche dello yoga scoperte dagli archeologi, reperti risalenti a circa quattromila anni fa, sono proprio incisioni di esseri in questa posizione. In particolare ricordiamo l'incisione di Pasupati [vedi fig.1 di seguito] , conservata nel Museo Nazionale di Nuova Delhi, che rappresenterebbe secondo le ipotesi più attestate, il dio Shiva nella sua forma ancestrale, più antica, intento in meditazione. La datazione di questa incisione nella steatite, ritrovata a Mohenjodaro, nell'attuale Pakistan, è talmente antica da restituirci un quadro dell'India persino precedente all'invasione aryana e all'introduzione del sanscrito, un'India preistorica popolata da genti dravidiche. I successivi conquistatori faranno proprio e svilupperanno il sistema dello yoga qui indubbiamente rappresentato graficamente. Mi ha sempre emozionato moltissimo l'idea che alcune posizioni dello yoga possano avere un'origine tanto antica e che forse quest'arte era praticata già nel neolitico sulle sponde del fiume Indo, da persone che, in fin dei conti, erano uguali a noi. Uguali anatomicamente e, essendo uomini, uguali nelle domande che si ponevano.  Le popolazioni del Sud dell'India furono meno influenzate dall'invasione delle popolazioni aryane avvenuta intorno a 2500 anni fa, e ciò è dimostrato dal fatto che ancora oggi parlino lingue dravidiche pre-aryane come il Tamil o il Kannada. Chissà se le scuole di yoga diffuse in queste regioni, per alcuni aspetti differenti dalle scuole del Nord, abbiano raccolto e rielaborato questa tradizione antichissima con una minore mediazione aryana? Difficile, se non impossibile, affermarlo.
Ma, tornando all'Hata Yoga Pradipika, Svatmarama ha appena descritto quella che sembra essere una sequenza, strutturata in undici posizioni, che si svolge partendo da alcune asana da seduti, arrivando a posizioni più intense, per poi arrivare ad una torsione e infine a savasana, il cadavere, come ultima. Questa sequenza è preparatoria per il fine ultimo del suo sistema di yoga, il proseguimento della pratica con pranayama e meditazione e il fluire dell'energia. Ora, con tutte le differenze del caso, questo percorso è  simile in modo impressionante ad una moderna pratica di yoga, almeno secondo le scuole più classiche.
Ma perchè siddhasana è una posizione "perfetta"? lasciamo che sia l'autore a rispondere.






fig.1 Incisione di Pasupati
da wikipedia




HYP1:33. caturasīty āsanāni sivena kathitāni ca |
tebhyas catuskam ādāya sāra bhūtam bravīmy aham ||


Fra le ottantaquattro asana insegnate da Shiva, ho scelto le quattro essenziali, e le spiegherò.

Dopo la sequenza composta da undici posizioni Svatmarama afferma che le asana insegnate in origine da Shiva erano 84.  In altri testi il numero indicato è molto maggiore, a volte 8.400.000, ad indicare che lo yoga di Shiva comprende tutte le posizioni che il corpo può assumere.  Molti famosi maestri, tra I quali Swami Kailashananda Maharaj, concordano sul fatto che il numero delle asana sia infinito. La Goraksha Samhita opera precedente l’Hata Yoga Pradipika, descrive l'origine delle 84 asana classiche, osservando che ci sono tante posture quanti sono le tipologie di esseri e asserendo che ci sono 8.400.000 specie in tutto, il testo afferma che Shiva abbia creato un asana ogni 100.000 tipologie, dandone così 84 in tutto. Anche la Gherada Samhita, opera molto posteriore, afferma che le asana donate da Shiva sono 8.400.000 ma che quelle principali sono 84, ma ne elenca 34.
Questo aspetto, il fatto di enumerare 84 posizioni, ma di esporne solamente quindici, undici preparatorie e quattro fondamentali, mette secondo noi ben in luce  la nostra ipotesi che l’Hata Yoga Pradipika sia un riassunto di opere più complesse che descrivono in dettaglio i rituali tantrici, estraendone alcune posture.

HYP1:34. siddham padmam tathā simham bhadram vaiti catus tayam |
srestham tatrāpi ca sukhe tisthet siddhāsane sadā


Le quattro migliori Âsana son Siddhasana, la posizione perfetta, Padmasana, la posizione del loto,  Simhasana, la posizione del leone e Bhadrasana, la posizione favorevole.
E fra queste, Siddhâsana, la posizione perfetta, è la migliore e deve essere praticata tutti i giorni.


La sequenza di 11 posizioni da poco descritta sembra essere quindi preparatoria per le quattro posizioni più importanti che l’autore si accinge a enunciare. Sono tutte posizioni da seduti che possono accompagnare ulteriori pratiche di respirazione o di meditazione, fatta eccezione per simhasana, la posizione del leone, una postura molto particolare che vedremo di seguito in dettaglio.  La posizione più importante è però siddhasana. La traduzione di siddhasana come posizione perfetta è un’approssimazione, siddha significa saggio, ispirato, veggente, profeta; i Siddha sono essere realizzati, umani e non, di grande potere, molto comuni nella mitologia induista e buddista. Il nome della posizione allude al fatto che sia assunta da esseri realizzati, forse la traduzione “posizione dell’illuminazione” sarebbe più esplicativa, seppure fuorviante in quanto  potrebbe lasciare intendere che sia sufficiente la sola posizione per raggiungere l’illuminazione, per questo motivo continueremo ad indicarla come “posizione perfetta”, come nella tradizione delle traduzioni occidentali.


fig.2 Siddhasana
da The complete Yoga Poses di D. Lacerda




HYP1:35. atha siddhāsanam |
yoni sthānakam anghri mūla ghatitam krtvā drdham vinyaset
mendhre pādam atha ikam eva hrdaye krtvā hanum susthiram |
sthānuh samyamitendriyo acala drsā pasyed bhruvor antaram
hy etan moksa kapāta bheda janakam siddhāsanam procyate ||


Ora [descriveremo] siddhasana, la posizione prefetta.
Avendo messa il tallone di un piede contro il pavimento pelvico, si deve porre l'altro piede saldamente sopra i genitali. Appoggiando forte il mento sul petto, si deve restare immobili, con i sensi sotto controllo, e lo sguardo fisso al centro delle sopracciglia.  Questa postura è conosciuta come siddhasana, la posizione perfetta, perché apre la porta dell’illuminazione.


L’esecuzione di siddhasana mette in evidenza un aspetto particolare dello yoga all’epoca di Svatmarama, ovvero che questa arte fosse praticata principalmente dagli uomini, il riferimento è infatti ai soli organi genitali maschili, mendhre. Alcune scuole di yoga riportano la versione femminile con il nome di siddhayonasana o siddha yoni asana, letteralmente “la posizione perfetta per la donna”, con esecuzione identica a siddhasana ma con riferimento agli organi sessuali femminili. Non conosco nessun testo antico che riporti una posizione con questo nome, ma potrebbe essere una mia ignoranza, conosco invece diverse rappresentazioni artistiche di divinità femminili, sedute all’incirca in questo modo; è plausibile quindi supporre che un certo numero di donne praticassero lo yoga. Anche tra i monaci rinuciatari, antichissima istituzione in India, quasi tutti praticanti di qualche forma di yoga, le donne sono rare, ma ne esistono. Oggi giorno, in India come nel mondo, le praticanti donne, negli ashram, nei centri o nell’intimità domestica, sono invece moltissime, forse più degli uomini. Qualcuno vede in questo un piano di evoluzione spirituale dell’umanità, ma non ci spingeremo tanto oltre.
 E’ un dato di fatto che nella descrizione dei canali energetici e dei centri energetici del corpo umano, sono molto poche le differenze che vengono sottolineate tra la cosiddetta fisiologia sottile maschile e quella femminile. In questa posizione è essenziale l’aspetto sottile, di stimolazione energetica, più che quello collegato con gli aspetti sessuali o di genere.

Siddhasana è la posizione dell’illuminazione perché stimola la totalità dei punti energetici fondamentali. Il tallone del primo piede è infatti posto a contatto con mulandhara, ovvero “il supporto della radice”, il primo chakra, o ruota energetica, posizionato alla base della colonna vertebrale. Non vogliamo in questa sede ripercorrere tutta la tradizione ayurvedica, la medicina tradizionale indiana, legata ai chakra ed all’anatomia sottile, basti qui schematicamente accennare che il primo chakra è quello legato all’istintività, agli aspetti primordiali dello spirito e dove si annida latente, l’energia, chiamata a volte kundalini, in tutti gli uomini e donne. Gli yogi e le yogini amplieranno e faranno fluire questa energia verso le ruote energetiche più alte, attraverso tutti e sette i chakra, e quando questa potenza energetica spirituale giungerà in quelli più elevati, si sperimenterà il samastithi, ovvero l’illuminazione o il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito universale assoluto, che dir si voglia.
Il secondo tallone è posto a contatto con svadhistana, ovvero “la propria base”, il secondo chakra, posizionato all’incirca alcuni centimetri sopra gli organi sessuali, collegato con la sfera emotiva. Il lavoro su questi due chakra è particolarmente importante perché per il passaggio dell’energia al successivo centro energetico è necessario abbattere un nodo chiamato generalmente brhama granthi, e per farlo si deve stimolare e concentrare il prana proprio nei primi due chakra, con varie tecniche.  Svatmarama evidenzia come siddhasana aiuti questo processo e per questo debba essere praticata ogni giorno.
In realtà la forza di siddhasana va oltre, viene infatti detto di  portare il mento verso il petto, agendo direttamente sul quinto chakra, posizionato nella gola, visuddha, ovvero “particolarmente puro”, legato alla sfera della comunicazione e della creatività. Infine è introdotto il concetto di dristhi, ovvero dove portare lo sguardo, l’attenzione, fondamentale per moltissime scuole di yoga e caratterisico di ogni singola asana: in siddhasana gli occhi si concentrano alla base del naso, al centro delle sopracciglia. Questa è la localizzazione di ajna chakra, il sesto centro energetico,  ovvero “l’autorità”, collegato con l’intuizione e la percezione, rappresentato spesso come il terzo occhio, l’occhio dello spirito, quello che Shiva utilizza per incenerire ogni cosa. A questi due chakra è associata un’altra chiusura, Rudra granthi, il nodo di Shiva, la cui rimozione permette all’energia sottile di giungere all’ultimo chakra e di ricongiungersi con l’assoluto. La stimolazione di questi due chakra è quindi ancora una volta fondamentale e parte della pratica più elevata ed evoluta.
Ma la forza di siddhasana non si esaurisce qui, è sufficiente provare la posizione per capire che vengono ampiamente stimolati anche terzo e quarto chakra, rispettivamente manipura e anahata,  localizzati intorno all’ombelico il primo e all’altezza del cuore il secondo e collegati rispettivamente con la volontà e con i l'emotività. Infatti l’estensione verso l’alto della colonna vertebrale porta naturalmente l’addome a rientrare ed il petto ad espandersi in avanti. E’ quindi una delle pochissime posizioni in cui si attuano contemporaneamente tutti e tre i bandha, ovvero le chiusure che servono per rimuovere i tre granthi, le barriere di cui si parlava poco sopra e che stimola contemporaneamente tutti i chakra. I tre bandha sono mula bandha, la contrazione del pavimento pelvico, uddjiana bandha, la contrazione del basso addome e jalandara bandha, la chiusura della gola con il mento. Svatmarama confermerà successivamente questa nostra supposizione. Siamo consapevoli di aver compiuto numerose e ampie semplificazioni, e un processo molto complesso, con innumerevoli sfumature e differenze tra le varie scuole di pensiero, è stato schematizzato in poche righe. Sono moltissime le differenze in questa visione dei flussi di energia nel corpo tra scuole di yoga e di ayurveda, separate anche ampiamente nel tempo e nello spazio, in ogni singolo anche piccolo aspetto di questo processo. Crediamo però di aver reso giustizia del perché Svatmarama consideri siddhasana la posizione più importante di tutte, o meglio, per utilizzare le sue stesse parole: la posizione che apre la porta della liberazione. Il termine che egli utilizza per illuminazione o liberazione è proprio Moksa, ampiamente utilizzato sia nella tradizione induista che buddista come conseguimento di una condizione spirituale superiore.

HYP1:36. mendhrād upari vinyasya savyam gulpham tathoupari |
gulpha antaram ca niksipya siddhāsanam idam bhavet


Porta la caviglia sinistra sopra i genitali e metti anche l’altra caviglia sopra, anche questa variante è chiamata siddhasana.

HYP1:37.etat siddhāsanam prāhur anye vajrāsanam viduh |
muktāsanam vadanty eke prāhur guptāsanam pare


Questa posizione viene chiamata Siddhâsana; altri la conoscono come Vajrâsana, altri la chiamano Muktâsana, altri ancora Guptâsana.

Svatmarama propone anche una variante di siddhasana. Nella prima versione i talloni, anghrimula, erano portati sopra e sotto i genitali, in questa variante entrambe le caviglie, gulpham, sono portate sopra gli organi sessuali. E’ evidente come già ai tempi in cui fu scritta l’Hata Yoga pradipika, fosse difficile codificare in modo stretto le diverse asana e che già esistessero varianti e sottovarianti, a volte con un nome diverso, alle volte con nome uguale. Viste le sottili differenze tra l’una e l’altra possiamo facilmente immaginare che per le diverse scuole esistessero differenze anche sostanziali nei nomi delle posizioni e nella loro esecuzione, d’altronde quella dello yoga è una tradizione esperenziale che si tramanda da allievo a discepolo, non è un corpus teorico cristallizzato nell’eternità. L’autore ricorda infatti che questa stessa posizione era ai suoi tempi alle volte anche chiamata vajrasana, la posizione del fulmine. Oggi molti confondono vajrasana con la posizione dell’eroe, virasana, per un mero fatto di assonanza del nome sanscrito. Vajra è invece una delle forme che il prana assume all’interno del corpo, lucente come il diamante e potente come il fulmine, una energia maschile, trasportata dalla testa verso gli organi sessuali dal canale che porta il suo nome, vajra nadi, la cui dispersione viene evitata con una contrazione di un punto alla base degli organi genitali chiamata vajroli mudra. E’ probabile che siddhasana svolga un lavoro intenso su questo canale energetico e per questo sia chiamata da altre scuole, in forma identica o con alcune modifiche, con il nome di  vajrasana. I possibili nomi non si fermano qui, l’autore ci rappresenta che essa viene alle volte identificata con il nome di  muktâsana, ovvero “la posizione di colui che è liberato”, con la medesima radice e il medesimo significato del termine moksa cui si faceva riferimento in precedenza. Infine è anche nota con il nome di guptasana, la posizione nascosta o di colui che si nasconde. E’ possibile che questo nome faccia riferimento agli asceti che si nascondono nella foresta, ma sono possibili altre interpretazioni. La Gheranda Samhita assegna proprio questo nome a questa posizione invece che siddhasana.
Per completare il quadro, diremo che siddhasana, in Giappone, ma anche nel resto del mondo, è chiamata spesso posizione burmese, ovvero birmana. Il Myanmar, un tempo chiamato Burma o in italiano Birmania, ha un'antica tradizione buddista e probabilmente viene identificato come paese caratteristico di questa posizione.

HYP1:38.yamesv iva mitāhāram ahimsā niyamesv iva |
mukhyam sarva āsanesv ekam siddhāh siddhāsanam viduh ||

 Così come fra i precetti etici, Yama, è preminente la moderazione nell’alimentazione e fra i precetti morali, Niyama,  è preminente  la non violenza, per gli esseri illuminati, Siddha, è preminente la posizione perfetta, Siddhâsana tra tutte le posizioni o asana.


HYP1:39. caturasīti pīthesu siddham eva sadābhyaset |
dvāsaptati sahasrānām nādīnām mala sodhanam ||


Fra le ottantaquattro posizioni, si deve sempre praticare Siddhâsana, perché purifica le settantaduemila Nâdî.

HYP1:40. ātma dhyāyī mitāhārī yāvad dvādasa vatsaram |
sadā siddhāsanābhyāsād yogī nispattim āpnuyāt ||


Lo Yogi che medita e mangia con moderazione, praticando Siddhâsana
costantemente, per dodici anni, otterrà i risultati finali.


Abbiamo detto come, in confronto con gli Yoga Sutra di Patanjali, l’Hata Yoga Pradipika sembri, in ultima analisi ,un testo rozzo, non incline a quella perfezione filosofica che trovavamo nel suo predecessore più illustre. Appare come un testo pratico, quasi un manuale, un riassunto o un’estrapolazione da altri testi più eruditi. Avevamo anche detto che parte del suo successo è dovuto proprio a questo carattere di semplicità, l'Hata Yoga Pradipika può essere un compendio utile sotto il profilo concreto a chi pratica yoga con la guida di un maestro. Oltre ai concetti non particolarmente elevati, anche nella forma troviamo spesso approssimazioni, ripetizioni, affermazioni dogmatiche o tautologiche e qualche contraddizione. Siamo consapevoli che in alcuni casi ciò può dipendere dal rimaneggiamento del manoscritto originario nella trascrizione. Ma, qualunque sia il motivo, questi versi ne sono un buon esempio. Precedentemente l’autore aveva affermato che i nyama, i precetti morali, fossero un ostacolo alla pratica dello yoga, ora invece ci informa che il più importante di essi è aimsha, la non violenza. I casi sono due o ritiene non importante la non violenza per il suo yoga, ma escluderemo questa ipotesi, oppure viene utilizzato lo stesso termine, nyama, per concetti diffrenti, nel primo caso aderire a regole eccessivamente rigide e nel secondo aderire alla norma etica della non violenza. Il quadro ci sembra comunque impreciso e il raffronto  con la perfetta esposizione dei nyama nel secondo libro dei sutra di Patanjali ingrato verso Svatmarama.  Tralaltro l’autore inverte il significato classico di yama e nyama, attribuendo aimsha ai precetti morali verso se stessi e non, come Patanjali ai precetti etici verso il prossimo. I perché possono essere molteplici, storici o filosofici, ma comunque non ci convincono.
Per suggellare il tono poco elevato, viene affermato che la più importante norma di comportamento verso se stessi, quella che era per Patanjali sauca, la purezza o la purificazione, diviene mita haram, una dieta modesta. Differenze nel tono e negli intenti. Anche questo accostamento di aimsha, il fulcro dell’esistenza per una cospicua fetta del mondo orientale e mita haram, mangiare poco, non sottintende a nostro giudizio un quadro filosofico particolarmente strutturato.
In modo molto dogmatico viene poi affermato che siddhasana purifichi tutte le nadi del corpo che sono per alcune tradizioni 72, per altre 72.000 o comunque moltissime. Il processo di purificazione immaginato è probabilmente quello relativo ai sette chakra esposto in precedenza.
Infine una promessa, chi praticherà la meditazione in questa posizione perfetta per dodici anni, otterrà  i risultati finali, nispattim, l’autorealizzazione. Il tutto ci appare molto meccanico e anche semplicistico, non si tiene conto della diversità degli individui e le uniche discriminanti sono meditare in siddhasana e mangiare poco. Probabilmente l’opera di Svatmarama vuole prendere le distanze dalla deriva degli insegnamenti di Patanjali, dalle pratiche eccessivamente ascetiche, dalle speculazioni eccessivamente filosofiche e anche dalla frammentazione dell’esecuzione di mille oscure pratiche. La scuola che da lui discenderà, l’Hata Yoga classico, porrà molto l’accento sugli esercizi, su posizioni del corpo, esercizi di respirazione e meditazione per arrivare al risultato finale.  Qui il nostro autore non rivela il risultato finale perché sappiamo che la sua è un’opera esoterica, che descrive, ma nasconde ai non iniziati. Ricordiamo un meraviglioso intero libro dei sutra di Patanjali dedicato, al contrario, ai doni che lo yoga  permette di conseguire [confronta: Patanjali Yoga Sutra, Libro Terzo: i Doni] . Qui il discorso sembra particolarmente dogmatico: fidati, pratica per dodici anni e arriverai alla meta.

HYP1:41. kim anyair bahubhih pīthaih siddhe siddhāsane sati |
prāna anile sāvadhāne baddhe kevala kumbhake |
utpadyate nirāyāsāt svayam evaunmanī kalā ||


Che bisogno c'è di tante altre posizioni se è eseguita la posizione perfetta, Siddhâsana? se il respiro è accuratamente trattenuto per mezzo dell’apnea spontanea, Kevala Kumbhaka, insorge immediatamento lo stato senza coscienza meditativo, unmani avastha.  


HYP1:42.tatha ekāsminn eva drdhe siddhe siddhāsane sati |
bandha trayam anāyāsāt svayam evopajāyate ||


Quindi, quando la posizione perfetta, Siddhâsana diviene stabile e perfetta, le tre chiusure, bandha, si produrranno spontaneamente. 


HYP1:43. na āsanam siddha sadrsam na kumbhah kevalopamah |
na khecarī samā mudrā na nāda sadrso layah ||


Non c'è nessuna posizione come Siddhâsana, nessun apnea come l’apnea spontanea, Kevala, nessun gesto mudrâ come la lingua Khecarî, la lingua contro il palato e nessun suono come il silenzio.


Per concludere il discorso riguardo siddhasana, l’autore si chiede retoricamente perché ci sia bisogno di altre posizioni, visto che siddhasana è assolutamente perfetta. Ce lo chiediamo anche noi, nel senso che ci chiediamo come mai tratti altre quattordici asana nel primo capitolo se sono praticamente inutili. A parte gli scherzi, le prime undici posizioni, quelle che sembrano descrivere una sequenza, appare ora chiaro che siano esclusivamente preparatorie a queste quattro fondamentali per la meditazione, di cui siddhasana costituisce la prima e più importante. Le altre tre saranno descritte di seguito.
Svatmarama anticipa poi una serie di argomenti che saranno trattati successivamente. Egli accenna a  Kevala Kumbhaka, argomento che sarà trattato a proposito del pranayama, ovvero degli esercizi di controllo del respiro o, meglio, di gestione dell’energia pranica.  Kevala kumbhaka è un’apnea, non a polmoni pieni, né a polmoni vuoti, né tanto meno volontaria, ma un’apnea che insorge spontanea nello stato meditativo. Vedremo in dettaglio cosa significa.  Unmani avastha, semplificando, è invece lo stato a cui conduce la meditazione in cui la coscienza abbandona il corpo e la mente.
Avevamo già accennato alle tre chiusure che si effettuano nel corpo per incanalare e trattenere il prana con lo scopo di rimuovere le barriere che ostacolano il suo fluire tra i chakra e come queste siano strettamente connaturate con siddhasana. Non abbiamo invece parlato dei mudra. I mudra sono gesti fatti per deviare e incanalare l’energia, in realtà anche i bandha appartengono alla categoria più generale dei mudra, sono mudra che si servono di contrazioni di alcune parti del corpo per concentrare l’energia. Un maestro, Swami Satyananda, diceva che i mudra deviano l’energia, come uno specchio devia la luce. Ci sono mudra di altra tipologie, tra i quali, quelli più noti, sono forse quelli che si praticano con particolari gesti delle dita delle mani.   Khecarî è un mudra molto particolare, che si compie invece con la lingua, facendo risalire la punta attraverso il palato superiore, verso la cavità nasale.
Infine viene detto: nessun suono è comparabile al silenzio. Questa affermazione  “layah  sadrsah nāda” viene tradotta in alcuni commentari invertendo i due termini ovvero: nessuna dissoluzione, sott’intendendo della mente, è comparabile con il suono estatico. Sembrerebbe un pochino forzata, ma la prima traduzione, più lineare, non svela in effetti il significato ultimo di questo sutra di cui invece la seconda rende giustizia. Al sopraggiungere dello stato meditativo, nel silenzio dei pensieri, dissoluzione della mente, si rivela il suono senza suono, nada anhanath, descritto in numerosi altri testi. L’autore tornerà su questi concetti.


Vedremo nel prossimo articolo le altre tre posizioni fondamentali: il loto, il leone e la posizione favorevole.




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