Hata Yoga Pradipika: caratteristiche della yoga shala (HYP.I:12-14)

maggio 10, 2018



di Marco Sebastiani

Entriamo ora nel vivo dell'Hata Yoga Pradipika, l'autore, Svatmarama, inizia a descrive l'Hata Yoga, rifugio dalle sofferenze e sostegno della vita. Il primo aspetto trattato è il luogo della pratica. Pur riferendosi l'autore all'India rurale del primo millennio dopo Cristo, non sono pochi gli spunti di riflessione che ne derivano. Seduti a gambe incrociate nella nostra shala, nel nostro luogo di pratica, non sembra essere passato così tanto tempo. Se avessi una sala yoga o anche solo se avessi a casa uno spazio dedicato alla pratica, leggerei con estrema attenzione le parole di Svatmarama, ad una attenta analisi, colme di spunti molto importanti. Potremmo veramente dire: "Così lontano, così vicino". Lontano nel tempo e nello spazio, ma vicino nel descrivere le caratteristiche di un perfetto luogo di pratica. Questo è il primo aspetto dello yoga trattato nell'Hata Yoga di Svatmarama che precede le posizioni del corpo o asana. Condizione sine qua non per dedicarsi allo yoga. Comunque si voglia affrontare la questione, lo spazio dello yoga è uno spazio sacro, indicando il termine sacro nella corretta accezione di una realtà alla quale si  aggiungono una serie di significati e attributi ulteriori rispetto a quella quotidiana ordinaria definita profana. Scomodando Mircea Eliade, il celebre storico delle religioni, diremo chel'esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall'uomo per costruire un mondo che abbia un significato. In questo senso la sala yoga o più correttamente la yoga shala, come viene definita in sanscrito, la casa o la stanza dello yoga, è un posto sacro e come tale va rispettato e approcciato. Anche se tutto questo non ha per noi senso, ricordiamocelo comunque, se non altro per rispetto di quelle persone che da circa cinquemila anni, attribuiscono a questo luogo un tale significato, per il semplice fatto che lì si pratica yoga.




HYP.I:12. surājye dhārmike deśe subhikṣe nirupadrave |
dhanuḥ pramāṇa-paryantaṁ śilāgni-jala-varjite |
ekānte maṭhikā-madhye sthātavyaṁ haṭha-yoginā  ||

Lo studente di Hata Yoga deve praticare in un luogo isolato, ampio almeno un arco, lontano dai pericoli di acqua, terra e fuoco, in una regione, viortuosa  e prospera.


La prima caratteristica che deve avere il luogo dove si pratica yoga è l'isolamento. Luoghi rumorosi, affollati di persone, non sono ovviamente adatti. La concentrazione, dharana, è forse la caratteristica più intrinseca di tutta la pratica, qualunque sia la fase in cui ci troviamo. La mancanza di isolamento rende la concentrazione tanto più difficile quanto più si rende caotico il luogo o i paraggi. Questo suggerimento è tragicamente valido ancora oggi e ci viene alla mente ogniqualvolta vediamo proposto lo yoga in centri, diciamo con un eufemismo, multidisciplinari. Il sutra centrale di queste tre righe, pur trattando questioni estremamente tangibili e materiali, offre il fianco a varie interpretazioni. L'ampiezza raccomandata per la pratica può  infatti essere interpretata come circa 2 metri, facendo riferimento ad un'antica unità di misura, oppure come un effettivo tiro di una freccia con l'arco. Entrambe le traduzioni sono ugualmente diffuse nei commentari.  Chiarite queste due possibili interpretazioni, ne proporremo una terza, sicuramente scorretta rispetto al pensiero dell'autore, ma molto attuale per i moderni canoni di pratica ovvero che la sala da yoga potrebbe essere grande come un tiro d'arco (almeno 20-30mq) e che ad ogni praticante dovrebbe essere assicurato uno spazio dell'antica misura di un arco indiano (almeno 2mq). Siamo consapevoli che questo disegno sarebbe troppo perfetto anche per il divino Svatmarama.
Il luogo si deve trovare infine lontano da pericoli e in un'area prospera. I pericoli di terra, acqua e fuoco cui si riferiva l'autore sono probabilmente frane, esondazioni, fulmini, incendi e animali selvatici; quelli di oggi sono probabilmente, come suggerito da Hans Ulrich Rieker nella suo bellissimo commentario, le automobili, la televisione, le attrazioni, il caos cittadino.
Infine, la regione deve essere dhārmike, virtuosa, nel senso che devono vigere le leggi del Dharma ovvero le leggi cosmiche fondamento della realtà, deve vigere la verità. Secondo chi scrive il riferimento è all'accettazione delle pratiche dello yoga e in qualche misura anche dell'induismo, ovvero viene raccomandato di non praticare in un posto dove si possa essere per questo perseguitati, criticati o stigmatizzati. Infine la regione deve essere subhiksha, ovvero, letteralmente, ricca di elemosine. E' difficile dire se dal punto di vista dei frutti della natura o effettivamente della possibilità di sostentarsi anche con altri mezzi, con le offerte delle persone caritatevoli o dei discepoli. Questo consiglio è forse quello che più è stato ascoltato da molti fondatori di centri yoga moderni. Stiamo naturalmente scherzando. 
In sintesi il luogo di pratica deve essere isolato dal flusso della vita sociale e da possibili distrazioni, garantire uno spazio adeguato ed essere in sintonia con l'ambiente dove sorge nel suo complesso, non ci devono essere problemi logistici o di contesto ed infine la situazione nella quale è immerso deve essere in armonia e favorire i presupposti al fiorire dell'attività. Così lontano, così vicino.

HYP.I:13. alpa-dvāram arandhra-garta-vivaraṁ na-aty-ucca-nīcāyataṁ
samyag-gomaya-sāndra-liptam amalaṁ niḥśesa-jantūjjhitam |
bāhye maṇḍapa-vedi-kūpa-ruciraṁ prākāra-saṁve-ṣṭitaṁ"
proktaṁ yoga-maṭhasya lakṣaṇam idaṁ siddhair haṭhābhyāsibhiḥ


Il luogo dove si pratica deve avere una porta piccola, deve essere senza finestre, il pavimento deve essere livellato, deve essere assolutamente pulito, senza insetti e le pareti devono essere ben levigate [spalmate con sterco di vacca].
Anche esternamente il luogo deve essere pulito, recintato e circondato da uno spazio aperto, con una fonte di acqua. Queste sono le caratteristiche del luogo in cui compiere la pratica yoga, descritte dai Siddha, maestri illuminati dell'Hatha-Yoga.

Continua la descrizione del luogo di pratica come un posto che debba favorire la concentrazione, dharana. A questo scopo viene raccomandato che non abbia finestre o che quindi, in tempi moderni, abbia le finestre coperte dalle tende, banalmente per non apportare distrazioni ai praticanti che altrimenti potrebbero essere attratti da ciò che si vede al di fuori. Molti maestri che conosco, senza aver letto l'Hata Yoga Pradipika, oscurano le finestre prima dell'inizio della pratica, ma il motivo dipende anche da una ragione più sottile. Ho sentito affermare da vari maestri indiani, tra i quali Shankar Vshankar, che le tecniche di gestione del prana, l'energia che tutto pervade, durante la pratica, come ad esempio la respirazione ujaii, i bandha, i mudra, ma anche le asana stesse o la meditazione, siano pesantemente influenzate dal prana circostante all'ambiente dove si pratica. Per la quasi totalità delle scuole indiane, ed anche come vedremo per l'Hata Yoga Pradipika, la parte centrale dello yoga è costituita proprio dalla gestione e dall'incanalamento del prana. In particolare questi maestri affermavano che non necessariamente una maggior quantità di energia nell'ambiente fosse favorevole alla pratica ed alla gestione del prana interiore alla persona. Al contrario le condizioni ideali per imparare a gestire il prana interno ed indirizzarlo verso i chakra, era, secondo loro, una condizione il più possibile sempre uguale ogni giorno. Per questo motivo questi maestri erano sfavorevoli a far praticare gli allievi all'aperto e apertamente contrari a farli praticare all'alba, al tramonto o senza un riparo nelle giornate assolate o ventose. Affermavano che loro stessi sarebbero stati in grado di gestire la situazione e di trarne vantaggio, ma non sarebbe stato così per i loro allievi, che sarebbero stati posti in una situazione di disequilibrio. Ricapitolando: una sala yoga riparata, senza finestre o con le finestre oscurate, oltre a non offrire distrazioni, permette una pratica con condizioni di energia dell'ambiente sempre uguali. Facendo riferimento alle sole energie della fisica, questo permette di avere una temperatura costante ed agendo lo yoga pesantemente sulla termoregolazione interna è sicuramente un fatto apprezzabile, il troppo caldo e il troppo freddo sono di ostacolo per chiunque. Inoltre le finestre non oscurate fanno anche variare drasticamente la luminosità dell'ambiente, fenomeno fastidioso durante le asana, ma insopportabile durante la meditazione. Infine, le correnti d'aria si capisce facilmente come siano detestabili quando aumenta la temperatura interna e comunque sempre una carezza se non fastidiosa, fonte di distrazioni in ogni circostanza. Da queste energie molto grossolane e tangibili capiamo come i grandi maestri vedano anche di cattivo occhio il variare alle energie più sottili di altro tipo che lo yoga favorisce nella circolazione all'interno del corpo e che sono presenti nell'ambiente circostante.
La pulizia è poi una caratteristica della sala che a noi ora appare scontata, il testo letteralmente dice che lo spazio deve essere libero da animali, insetti o serpenti o altro che sia, quindi in prima battuta pulito e ancora una volta privo di distrazioni. In seconda analisi deve essere anche conforme al concetto di sauca, ovvero di purezza, prima tra le norme di comportamento morale verso se stessi, o nyama, secondo Patanjali. Alla pulizia concorrono anche pareti senza buchi e ben intonacate. In Rajastan ai tempi di Svatmarama come intonaco veniva usato lo sterco di vacca e quindi il testo a questo si riferisce. Altra caratteristica sarà il pavimento livellato e in piano per poter garantire una pratica fisica sicura ed agevoli posture seduti. Se fosse stato un nostro contemporaneo avrebbe detto tappetini non troppo alti né bassi, con una buona aderenza. Scherzi a parte il contatto tra la terra e la nostra base di appoggio era importante nella pratica dello yoga allora come lo è adesso.

L'autore non risparmia una rapida descrizione dello spazio esterno al luogo di pratica. Deve essere presente una fonte di acqua, immaginiamo non tanto per bere, quasi universalmente infatti viene sconsigliato di bere o mangiare prima o dopo lassi di tempo variabili, ma comunque considerevoli, da tutte le scuole di yoga. La fonte d'acqua, piuttosto, deve essere presente per compiere le abluzioni rituali prima o dopo la pratica. E' molto comune vedere gli yogi che si bagnano nei corsi d'acqua prima o dopo la pratica, nelle città attraversate da fiumi. Nei casi in cui sia il Gange a lambire i centri abitati il fenomeno assume caratteristiche di massa. Anche chi abbia visto i monaci, sadhu, in ritiro tra le grotte tra le cascate alle sorgenti del Gange o di altri fiumi sacri può capire con chiarezza a cosa ci stiamo riferendo, ma forse esuliamo dal contesto descritto in questo caso. Un bagno freddo dopo la pratica ed uno caldo prima oppure freddo prima e dopo, sono suggeriti da molte scuole e maestri di yoga.
Anche esternamente il luogo deve avere una certa armonia, essere pulito e avere uno spazio libero intorno. Strutture incombenti, naturali o opere dell'uomo, vengono sconsigliate, così come altri ostacoli che possano fare ombra o creare una disarmonia.
Queste sono le raccomandazioni dei Siddha, termine molto utilizzato nella mitologia induista, con il significato di "antichi saggi", "uomini perfetti", "uomini realizzati", e le loro parole rappresentano invariabilmente la strada giusta da seguire, perché sono coloro che sanno ed hanno indirizzato la cultura stessa delle origini.


HYP.I:14. evaṁ vidhe maṭhe sthitvā sarva-cintā-vivarjitaḥ |
guru-upadiṣṭa-mārgeṇa yogam eva sam-abhyaset

Sedendo in un luogo con queste caratteristiche, il praticante di Hata Yoga può liberare la mente dai pensieri per occuparsi dello yoga così come gli è insegnato dal suo maestro.

Il concetto di liberare la mente, cinta vivarjitaḥ,  può essere paragonato con citta vritti nirodhah del secondo sutra sullo yoga di Patanjali, dove veniva espresso, nell'incipit dell'opera, che lo yoga consiste nel controllo, nirodhah, delle oscillazioni, vritti, della mente, citta. In questo caso, però, il significato è molto più spiccio e pedestre. La citta di Patanjali fa riferimento al concetto di sè, di coscienza, e le oscillazioni sono le modificazioni che essa assume. L'orizzonte di Svatmarama è molto più limitato e circoscritto:  libero, vivarjitaḥ, da pensieri o preoccupazioni, cinta. Non stiamo facendone una colpa all'autore, ma solamente sottolineando come l'Hata Yoga Pradipika non si perda in costrutti di analisi interiore e distinzioni filosofiche, viene qui espresso un concetto molto semplice, il luogo dove si pratica deve essere tranquillo in modo da non distrarre colui che pratica e farlo concentrare sull'unica cosa che conta in quel momento, lo yoga così come gli è stato trasmesso. Dopo i primi dieci sutra, interamente dedicati alla ricostruzione del lignaggio o discendenza dell'Hata Yoga, non potevamo pensare che Svatmarama la pensasse diversamente in merito: lo yoga può essere unicamente insegnato da maestro ad allievo e rimanere segreto. Come vedremo, usare solo il suo manuale per eseguire le posizioni, sarebbe quasi impossibile, è volutamente necessario l'intervento del maestro, l'unico demandato a trasmettere l'Hata Yoga.



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