Dayananda Saraswati e il revival vedico dell'Arya Samaj

novembre 09, 2021

di Enrico Casagrande

 

Dallo shivaismo ai Veda

Dayananda Saraswati (1824 – 1883), nasce Mool Shankar nel Gujarat da una famiglia brahmana di cultura shivaita. Fin dall’adolescenza inizia a distanziarsi dalla cultura spirituale della famiglia insoddisfatto dalle espressioni che a posteriori giudicherà idolatriche di una fede che egli avverte come incapace di offrire risposte definitive al suo profondo desiderio di verità. L’episodio sovente menzionato nelle biografie testimonia di una notte in cui il futuro Dayananda, all’età di quattordici anni, nel corso di una puja (venerazione) notturna dedicata a Shiva assiste, addormentatisi gli altri officianti, incluso il padre, al furto delle libagioni alla murti (immagine sacra) da parte di un ratto. Per il ragazzo “crollano” le convinzioni di fede apprese nel contesto familiare ed inizia un percorso di indagine spirituale in piena autonomia.
Secondo una consuetudine comune alla ricerca spirituale indiana, anche Mool compie il “gran tour” del subcontinente, dal 1846 al 1860, soggiornando in ashram, caverne e rifugi improvvisati, meditando con sadhu e yogin senza trovare requie al suo pellegrinaggio fisico ed interiore. Fatale è l’incontro nel 1860 con lo swami cieco Virajananda Dandee, profondo conoscitore della grammatica sanscrita di Panini e dell’opera vedica. Mool, divenuto a questo punto sannyasin Dayananda Saraswati (dal nome dell’ordine monastico d’appartenenza) si persuade dell’idea che l’impareggiabile dono che l’India ha da offrire all’umanità è il sapere dei Veda, per troppi secoli rimasto riservato a ristrette élite culturali che non sono state in grado o non hanno di proposito voluto formare adeguatamente i brahamani che nel tempo hanno perduto la capacità d’interrogare sapientemente la ricchezza e le verità contenute in quelle opere. Quelle parole udite dai rishi in epoche lontanissime possono e debbono, agli occhi di Dayananda, essere recuperate attraverso uno studio approfondito del sanscrito e diffuse senza pregiudizi di casta o genere: il ritorno al passato diventa la chiave d'accesso per il futuro spirituale ed etico degli hindu. Il revivalista dell’induismo moderno trova la morte nel 1883 dopo un mese di agonia a seguito dell’assunzione di un miscuglio di latte e pezzi di vetro fatto preparare da una danzatrice del Maharaja di Jodhpur, Jaswant Singh II, il quale nutriva la speranza di essere accettato come discepolo del guru. Il suggerimento di Dayananda di iniziare col tenersi lontano da soggetti come la danzatrice e dai lussi sfrenati portò la donna ad offrire al malcapitato la bevanda fatale.

L’Arya Samaj, la società dei nobili

Sul finire degli anni ’60 del XIX secolo Saraswati decide di dare l’avvio ad un’opera sistematica di insegnamento delle intuizioni e dei saperi acquisiti. Nel testo Satyartha Prakasha (luce di verità), dato alle stampe nel 1873, il maestro mette per iscritto la sua ferma opposizione verso i testi della smirti (i testi ricordati) come il Mahabharata e i Purana insistendo sulla necessità sull’adorazione dell’unico Dio, definito Aum, così come rivelatosi nell’opera vedica.
Nel 1872, in un viaggio a Calcutta, Saraswati ha modo di incontrare alcuni illustri rappresentanti del movimento riformista del Brahmo Samaj. In quell’occasione comprende il vantaggio dell’utilizzo del più diffuso hindi rispetto al gujarati, sua lingua madre, per raggiungere un più ampio numero di potenziali fedeli nel corso delle conferenze pubbliche. L'inglese non sarà mai padroneggiato dal padre dell'Arya Samaj ma non per questo l'organizzazione troverà ostacoli nella sua diffusione. Ispirato dall’efficienza del Brahmo Samaj, nel 1875 Dayananda Saraswati fonda il primo nucleo storico dell’Arya Samaj a Mumbai seguito due anni dopo dal Samaj di Lahore che verrà “perduto” nel 1947 a seguito della Partition post coloniale. Da poche centinaia di aderenti nel tempo l’associazione si espande attraverso pressoché tutta l’India, in particolar modo il nord ed il centro del vasto subcontinente: Gujarat, Uttar Pradesh, Bhihar e Rajastan in particolare. Con fervore riformista il maestro percorre infinite distanze fondando nuovi centri ed insegnando un ascetico monoteismo accompagnato da precise regole di condotta e gestione del culto. La morte di Dayananda non conclude l'esperienza della Società che si diffonde gradualmente in tutto il mondo ovunque vi sia un significativo numero di individui di cultura originariamente hindu. Si apprezza un importante presenza di scuole, orfanotrofi e ospedali direttamente legati all'Arya Samaj in Sud Africa, Kenia, Isole Fiji, Suriname e Mauritius. La determinazione ed i meriti del fondatore dell'Arya Samaj vengono apprezzati al pari dei grandi padri dell'India post - coloniale. Il secondo presidente dell'India Sarvepalli Radhakrishnan (1888-1975) giunge a definire il maestro come “la figura più decisiva tra i creatori dell’India Moderna” (President Radhakrishnan's Radhakrishnan's Speeches and Writings, May 1962 - May 1964, p.126 - 128).


I dieci princìpi ed il culto


Con il motto “krivantu vishvam aryam” (rendere nobile il mondo) l’Arya Samaj si impegna nell’estensione dell’educazione ad ogni casta, ogni genere e senza favorire i soggetti economicamente privilegiati. Dopo la morte del fondatore la Società ottiene pure il riconoscimento della legittimità del matrimonio delle cosiddette “vedove vergini” ossia le giovani che hanno perso anzitempo il marito dopo essere state costrette alla pratica del matrimonio infanitile. In aggiunta a tutto ciò ed all’insegnamento vedico la fede del Samaj presenta dieci princìpi ai quali l’aderente deve attenersi: la conoscenza umana è alimentata dall’unico Dio; Dio è origine del Tutto; l’essere umano può accedere alla vera conoscenza esclusivamente attraverso lo studio dei Veda; è in ogni circostanza vietata la menzogna; ogni agire umano deve sottostare alla legge eterna del dharma; tutto il mondo deve poter beneficiare del benessere fisico, sociale e spirituale; il dharma indica la via dell’amore e della giustizia tra gli uomini; ci si deve adoperare per la promozione della vera conoscenza; il benessere altrui è il benessere individuale; le relazioni sociali vanno fondate sull’altruismo. Il culto al quale è tenuto a sottostare un fedele è basato su upasana (meditazione) suti (lode), prarthana (preghiera), samskara (adesione ai sacramenti), panchayajna (riti) e samskara (adesione ai sacramenti). Si comprende dalla lettura dei princìpi e del culto che un discepolo di Dayananda è chiamato ad un lavoro di perfezionamento del proprio sé personale (l’identità più profonda e possibilmente immutabile) e sociale con l’obiettivo, facilmente osservabile nei punti in questione, di poter apportare una “rivoluzione” globale del sistema uomo nella convinzione tipicamente indiana che il mutamento personale possa avere una positiva ricaduta sulla società. Il movimento del satyagraha (fermezza nella verità) e la pratica della non violenza promossi da M.K. Gandhi non si discosta affatto da una tale visione.

Riconversioni

Lo zelo religioso degli aderenti al Samaj agisce a favore soprattutto della riconversione degli individui di origine hindu divenuti per differenti ragioni aderenti ad altre fedi: il fenomeno delle caste porta gli appartenenti ai livelli inferiori e soprattutto i dalit, i fuori casta, a trovare un riscatto sociale optando generalmente per il cristianesimo e l’islam. Shuddi (purificazione) è la pratica centrale di ritorno alla vera fede particolarmente sostenuta dalle frange più rigorosamente attive dell'Arya Samaj che, nato all’apice del potere coloniale del Raj britannico, pratica la riconversione sia per sincere ragioni di fede che per reagire all’europeizzazione e spesso annessa cristianizzazione degli indiani di fede originariamente hindu. Analogamente, l’impegno umanitario, come le fondazioni di orfanotrofi ed ospedali, encomiabili iniziative, possono essere lette in ottica concorrenziale verso le missioni cristiane (S. Piano, G. Filoramo a cura di, Hinduismo, Laterza, Roma, 2002 p. 256). Esistono autori che reputano le attività dell’Arya Samaj responsabili degli antagonismi tra hindu ed altre fedi (samajsevasamstha.wordpress, consultato 2021). La questione della complicata convivenza tra vari credi religiosi nel mondo indiano è presente quantomeno dai tempi dello scisma nato con l’opera del Buddha storico. Ogni punto di vista che nasce su un groviglio di tradizioni si presta ad alimentare nuove e vecchie critiche.


Tra riformismo e revivalismo

Collocato dagli storici tra i movimenti riformisti ascrivibili al neo – hinduismo del XIX secolo, l’Arya Samaj presenta la peculiarità di essere essenzialmente una realtà revivalista. A prima vista, il concetto di revivalismo può stridere con quello di riformismo. Evidenti sono le distanze tra l'hinduismo “muscolare” di Dayananda e la prima vocazione filo britannica ed essenzialmente illuministica del coevo Brahmo Samaj.
 La questione può essere risolta osservando come il revivalismo di Dayananda Saraswati vada letto come un purismo della tradizione hindu. Il maestro vede una sua degenerazione nella graduale diffusione di brahmani impreparati ed opportunisti. Ciò non è irrilevante nemmeno nel  Brahmo Samaj. Ma mentre per questo la ragione conduce l’uomo di ogni fede tanto al divino quanto al progresso, per l'Arya Samaj solo la fede nei Veda e nelle sue incrollabili verità permette l’autentico benessere umano. Da qui la resistenza di Dayananda verso altri cammini religiosi.
Il tema della conversione al cristianesimo in India è particolarmente evidente in epoca coloniale e contribuisce a comprendere le motivazioni dell’azione del padre dell’Arya Samaj. Il riformismo, così compreso, è pertanto strettamente connesso al revivalismo dato che la riforma, come nell’opera di Lutero, cerca di ritrovare la “purezza” degli inizi del messaggio salvifico.




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