Mito e yoga: vatayanasana, la posizione del cavallo

maggio 12, 2020



di Marco Sebastiani  

Nell'induismo il cavallo è un simbolo ancestrale, con significati elaborati e stratificati nel tempo. Le tracce più antiche e magnificenti sono nei Veda. Uno dei più importanti riti descritti in questi testi, realizzabile esclusivamente da un re, era infatti il sacrificio del cavallo ossia l'aśvamedha, अश्वमेध. Fu usato dagli antichi re indiani per dimostrare la sovranità sul loro impero: un cavallo accompagnato dai guerrieri del re sarebbe stato rilasciato per vagare per un periodo di un anno. Nel territorio attraversato dal cavallo, qualsiasi rivale poteva contestare l'autorità del re sfidando i guerrieri che l'accompagnavano. Dopo un anno, se nessun nemico fosse riuscito a uccidere o catturare il cavallo, l'animale sarebbe stato ricondotto nella capitale del re. Sarebbe quindi stato sacrificato e il re sarebbe stato dichiarato sovrano indiscusso.

Roberto Calasso, nel suo insuperato Ka, probabilmente uno dei più ispirati libri mai scritti sui Veda, ed infatti tradotto dall'italiano in quasi tutte le lingue, così si riferisce al rituale:

"Nell'anno, conficcati come un cuneo, c'erano i tre giorni finali dell'aśvamedha, che è il re dei sacrifici: permette a chi lo celebra di diventare re tra tutti i re, gli permette di ottenere tutto ciò che desidera. Erano tre giorni di cerimonie, ma tutto l'anno convergeva verso quel segmento del tempo. Per tutto l'anno si avvertiva una tensione nascosta, per tutto l'anno accadeva qualcosa che preparava a quei giorni. E un anno di altre cerimonie doveva fargli seguito, come per diluirne le conseguenze.
Per essere sovrano della terra intera basta considerarsi sovrano della terra intera, basta celebrare il rito di colui che è sovrano della terra intera: il sacrificio del cavallo. Ciò che è effettivo (la sovranità di fatto sulla terra intera) è secondario e derivato rispetto a ciò che è mentale e rispetto al rito che consegue a ciò che è mentale."


L'inciso del magnifico Calasso potrebbe chiudere il nostro articolo, perchè tutto dice o lascia intendere. Ma, rovinandone sicuramente la poesia, faremo lo sforzo di mettere in relazione quanto detto con la nostra vātāyāsana, वातायासन, la posizione del cavallo. Vātāya, significa rapido come il vento (वात vāta), quindi, per antonomasia, il cavallo.

Come sappiamo, è incerto se i Veda prescrivessero la reale uccisione di un animale, all'interno dei rituali che descrivono. Se nei Veda questo è incerto, nella tradizione successiva, questo assunto è sicuro: dalle Upanishad in poi il sacrificio vedico cruento viene sublimato, ovvero superato, e reso esclusivamente simbolico. Le parole dell'officiante sostituiscono l'atto in se, e, in qualche modo, il sacerdote bramino ne fa ricadere i simboli e le conseguenze su se stesso, su gli altri partecipanti e sulla natura circostante.
Con le dovute cautele, possiamo anche affermare che le posizioni dello yoga evocano i simboli di cui sono interpreti. Nell'eseguire ad esempio नटराजासन, naṭarājāsana, la posizione di Shiva Nataraja, il praticante rende omaggio e partecipa dell'essenza del Signore Shiva danzante. Almeno questo è ciò che alcune scuole di yoga insegnano ancora adesso in India, dove la tradizione Induista è ovviamente molto vibrante. Per portare un altro esempio, le posizioni dedicate ai saggi Rishi, come bharadvājāsana o vasistāsana, sono considerate spiritualmente più evolute, ovvero con una maggior potenziale spirituale, perchè mettono in contatto con l'elevazione dell'entità rappresentata e quindi evocata.
Tutto questo discorso per significare che la posizione del cavallo,  vātāyāsana,  evoca il rituale del cavallo, aśvamedha, e ne partecipa dei simboli, che nessuno meglio di Roberto Calasso ha mai descritto: "Per essere sovrano della terra intera basta considerarsi sovrano della terra intera, basta celebrare il rito di colui che è sovrano della terra intera: il sacrificio del cavallo. Ciò che è effettivo (la sovranità di fatto sulla terra intera) è secondario e derivato rispetto a ciò che è mentale e rispetto al rito che consegue a ciò che è mentale."
Spesso è proprio questo che lo yoga vuole trasmettere: la falsa identità tra realtà e pensiero, la possibilità di cambiare la realtà cambiando il pensiero, la centralità del proprio spirito nell'universo di cui siamo sovrani, perchè il nostro spirito non è che lo spirito che tutto pervade e illumina, ma queste non sono che vuote parole, concettualizzazioni di quanto già detto in forma ben più elevata dal sommo Calasso.

A conferma di quanto affermato, relativamente al fatto che i rituali vedici acquisiscano un significato propriamente simbolico, possiamo vedere come nel movimento induista di riforma Arya Samaj, di Dayananda Sarasvati, l'Ashvamedha sia considerato un'allegoria o un rituale per collegarsi al "Sole interiore", ovvero al prana, l'energia interiore su cui lavora lo yoga. [Confronta a riguardo l'opera di Roshen Dalal, Hinduism: An Alphabetical Guide. Penguin Books, India 2010.] Nessun cavallo doveva essere macellato nel rituale.
La parola medha significa in questa chiave omaggio; in seguito divenne sinonimo di oblazioni nel rituale, poiché vengono offerte oblazioni, dedicate a colui a cui rendiamo omaggio. Gli animali elencati come vittime sacrificali sono altrettanto simbolici come l'elenco delle vittime umane elencate nel Purushamedha, che è generalmente accettato come un sacrificio puramente simbolico già in epoca rigvedica.

Per chi fosse curioso, il testo che descrive con maggiore dovizia di dettagli il rituale è l'Ashvamedhika Parva, अश्वमेध पर्व, o "Libro del sacrificio del cavallo", il quattordicesimo dei diciotto libri del poema epico indiano Mahabharata. Krishna e Vyasa consigliano al re Yudhishthira di eseguire il sacrificio, che viene descritto molto a lungo, in modo estremamente particolareggiato.




Il simbolo del cavallo ha però anche influenze più recenti nel mondo dello yoga, rispetto ai Veda, la cui tradizione si dipana a partire dal 1500 AC circa e quindi prima dell'ascesa di Shiva e di Vishnu nel pantheon induista. Nell'induismo visnuita, o vaisnavita che dir si voglia, il cavallo è un simbolo fortemente legato al signore supremo Vishnu.
Il Signore Hayagriva è un avatar di Lord Vishnu.  È adorato come il dio della conoscenza e della saggezza, con un corpo umano e una testa di cavallo, di un bianco brillante, con abiti bianchi e seduto su un loto bianco. Simbolicamente, la sua storia rappresenta il trionfo della pura conoscenza, guidata dalla mano divina, sulle forze demoniache della passione e dell'oscurità.
Sono state studiate le origini del culto di Hayagriva e alcune delle prime prove risalgono al 2000 a.C. Hayagriva è una delle divinità di spicco nelle tradizioni Visnuite chiamate Vaikhanasas, Sri Vaishnavismo e dei bramini Madhwa. Le sue benedizioni sono ricercate quando si inizia lo studio di soggetti sia sacri che secolari. Il culto viene celebrato con una cerimonia speciale il giorno della luna piena in agosto.
La sua figura ha dei parallelismi con il dio Ganesha per il credo Shivaita.


Ma la storia più interessante per i nostri scopi, è quella di Kalki, o Kalkin, il decimo avatar profetizzato del dio Vishnu, che nascerà per porre fine al Kali Yuga, l'età del piombo, l'ultima era del ciclo dell'esistenza ed anche la nostra era, per iniziare un nuovo ciclo con Satya Yuga, l'età della verità o dell'oro.
Viene descritto nei Purana come l'avatar che ringiovanisce l'esistenza ponendo fine al periodo più oscuro e distruttivo per rimuovere l'adharma e inaugurare il Satya Yuga, mentre cavalca un cavallo bianco con una spada infuocata.  Ma la descrizione e i dettagli di Kalki sono diversi tra i vari Purana. Lui è, per esempio, solo una forza invisibile che distrugge il male e il caos in alcuni testi, un guerriero che guida un esercito, in sella al prode cavallo Devadatta, in altri e infine una dinitià dalla testa di cavallo come Hayagriva di cui abbiamo parlato precedentemente. Kalki si trova anche nei testi buddisti: nel buddismo tibetano, e nel Kalachakra-Tantra.

Gli avatar, cioè i corpi che il signore Vishnu ha incarnato per scendere sulla terra, sono:

  1.     Matsya (il pesce) – Satya yuga
  2.     Kurma (la tartaruga) – Satya yuga
  3.     Varaha (il cinghiale) – Satya yuga
  4.     Narasimha (metà uomo, metà leone) – Satya yuga
  5.     Vamana (il bramino nano ) – Treta yuga
  6.     Parshurama (il guerriero) – Treta yuga
  7.     Rama (il principe) – Treta yuga
  8.     Krishna (il mandriano) – Dawapara yuga
  9.     Buddha (l'illuminato) – Dawapara yuga
  10.     Kalki (il cavaliere), che deve ancora apparire

Questo è l'elenco dei daśāvatāra, दशावतार, 10 avatar del dio Vishnu. Non stupisca la presenza del Buddha, che alcuni bramani dicono essere giunto sulla terra per riportare al proprio modesto posto la casta dei mercanti divenuta troppo potente. Diversi tra questi avatar li abbiamo incontrati in relazione a posizioni yoga.

Il dio Vishnu appare sulla terra ogni qual volta il mondo sia in crisi, per ristabilire l'ordine.

Età dopo età, quando la fiamma della giustizia brucia pericolosamente flebile, quando l'azione giusta, la legge del Dharma è quasi inesistente, la divina forza conservatrice chiamata Vishnu assume una forma appropriata ai tempi e rimette in moto l'universo per un periodo di tempo.

Nella cosmologia indiana, il tempo è una sequenza ciclica di quattro epoche o yuga. Nel primo periodo d'oro, noto come Satya Yuga, il dharma, cioè la legge universale, la giustizia, l'ordine cosmico, è pieno e completo. Le persone si trattano a vicenda con compassione e preponderante è la cura per gli anziani, i malati e gli sfortunati, i sovrani sono giusti, la terra è fertile, le acque sono pure, gli animali non vengono maltrattati, la saggezza viene perseguita e gli dei vengono rispettati. In tale atmosfera, c'è ben poca sofferenza.

Tuttavia, è nella natura delle cose, secondo il pensiero Indiano, deteriorarsi nel tempo, il dharma decade gradualmente. Il dharma viene sostituito lentamente dal suo opposto l'adharma (in sanscrito come in molte altre lingue indoeuropee il suffisso "a" cambia il significato di una parola nel suo opposto), fino a quando, alla fine della quarta età, il Kali Yuga, le circostanze si sono talmente deteriorate che è necessario un intervento divino per salvare i giusti che sono sopravvissuti e stabilire una nuova era dell'oro.
L'idea alla base delle ere del Visnuismo sembra essere paragonabile all'entropia della fisica moderna ovvero al progressivo caos cui sono destinati i sistemi chiusi, che partono da una situazione iniziale di ordine. In questa ottica il dharma è misurabile come entropia negativa, portatrice di ordine. Ma non spingiamoci troppo oltre.

Lo Sri Kalki Purāṇa, कल्कि पुराण, è un'opera profetica, in sanscrito, che descrive in dettaglio la vita e i tempi di Kalki. La narrazione è ambientata verso la fine del Kali Yuga, l'Età oscura, come rivelato dal narratore di nome Suta (suta in realtà significa proprio cantore o casta dei cantori).

Come opera profetica, lo Sri Kalki Purāṇa descrive dettagli sugli eventi che accadranno in futuro. L'opera è essenzialmente una derivazione di passaggi raccolti da vari Purana che descrivono lo stesso argomento. L'opera tratta  principalmente l'aumento esponenziale del male e del peccato sulla terra durante il Kali Yuga, e la vita di Kalki, che pone fine alle tenebre, distruggendo il male e il peccato e iniziando un nuovo yuga di assenza di peccato e pace.

In questo testo della tradizione Vaishnavita, Brahma e altri dei si avvicinano a Vishnu per proteggersi dai mali del Kali Yuga. Dopo aver ascoltato le loro storie di persecuzione, Vishnu promette di nascere come Kalki nella famiglia di Sumati e Vishnuyasha, in un villaggio chiamato Shambhala (luogo mitico anche del Buddhismo tibetano). Kalki studia i Veda e gli altri testi sacri, quindi sposa una principessa di nome Padmavati del regno di Simhala. Quindi, Kalki e il suo esercito, combattono varie guerre e distruggono tutti coloro che hanno perseguitato i deva e allontanato il Dharma dalla loro terra. Dopo l'annientamento del male e il ripristino del bene, Kalki ritorna a Shambhala. Questo segna la fine del Kali Yuga e l'inizio del nuovo ciclo di esistenza. Kalki quindi ritorna in cielo.
Kalki si trova anche in testi buddisti, come il Kalachakra Tantra. La storia è piuttosto simile a quella appena narrata. I testi buddisti menzionano un re di nome Kalki di Shambhala che guida a cavallo un esercito per distruggere i malvagi persecutori del dhamma; poi dopo la vittoria del bene sul male e il raggiungimento delle libertà religiose, Kalki inaugura una nuova era.


 
 - La posizione del cavallo eseguita dal maestro Iyengar in Light on Yoga


Kalki è chiaramente una figura di transizione, che pone fine alla presente esistenza materialistica e inaugura una nuova stagione spirituale o, meglio, è la promessa profetica di questo nuovo inizio. Vatayanasana è una posizione yoga molto particolare che riprende questa chiave. Nell'ashtanga yoga secondo la tradizione di Sri Pattabhi Jois, basato sulla successione prestabilita di sequenze di asana, la posizione del cavallo è l'ultima della serie intermedia, è quindi la posizione che precede la serie avanzata, l'ultima, che conduce ai livelli più elevati di consapevolezza. Notate qualche analogia con quanto detto in precedenza?

Non è una posizione che solitamente viene insegnata nelle classi di vinyasa o hata yoga, proprio per la difficoltà di esecuzione e per il lavoro molto intenso sul ginocchio a terra. Il maestro B.K.S. Iyengar, generalmente avaro di questo tipo di note, commenta in Light on Yoga: “All'inizio sarà difficile bilanciarsi e le ginocchia faranno male. Con la pratica, il dolore scompare e l'equilibrio verrà a suo tempo raggiunto. "

Esistono due approcci leggermente differenti all'esecuzione di vatayanasana, nelle tradizioni indiane, uno prescrive che il piede e il ginocchio che sono a terra, siano sulla stessa linea e molto vicini, con i gomiti bassi rispetto alle spalle (come nella fotografia in alto del maestro Iyengar), questa esecuzione è particolarmente difficile per l'equilibrio. Un'altro orientamento 
indica invece di tenere lontani i piedi, con la gamba flessa in avanti che crea un angolo tibbia-femore di circa 90 gradi, e i gomiti alti rispetto le spalle.

E' una posizione molto particolare dicevamo che unisce l'incrocio delle braccia di garudasana, altra asana legata al dio Vishnu e all'infinito potere di Garuda, sua cavalcatura, [Confronta Mito e yoga: Garudasana, la posizione dell'aquila ], con una peculiare posizione delle gambe nel mezzo loto, in difficile equilibrio su di un ginocchio. La difficoltà di equilibrio del corpo e dello spirito del praticante evocano quella del dharma che, con il passare del tempo, si corrompe inesorabilmente. Ma vatayanasana rappresenta proprio la promessa del recupero dell'equilibrio spirituale.

E voi siete pronti per la prossima era spirituale inaugurata dal cavallo?

 - La seconda modalità di esecuzione, con ginocchio e piede lontani ed i gomiti alti

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