Jnana, il cammino della conoscenza

aprile 06, 2020


di Enrico Casagrande

Jnana, sanscrito ज्ञान, indica, nel pensiero tradizionale indiano, la conoscenza immutabile della realtà dove soggetto ed oggetto trovano una perfetta aderenza sino ad una loro completa compenetrazione. La conoscenza delle cose ultime viene interpretata dal samkhya, il darshana, o scuola filosofica, che precorre teoreticamente quello dello Yoga, come esperienza metafisica. La meditazione concede all’uomo di interrompere il ciclo del ritorno in vita, o samsara, tramite tale esperienza che parte dalla mente per trascendere essa stessa. Atman individuale e Brahman si identificano, nella visione del jnana marga o cammino della conoscenza, per mezzo di un processo contemplato dallo yoga darshana che, nel quarto capitolo della Bhagavad Gita, dimostra, dall’auriga Krishna rivolto al principe Arjuna, che le persone migliori, risolute nell’abbandonare il peso dell’emozione, della paura, della rabbia meditando sul divino, lo hanno raggiunto grazie al tapas, la pratica ardente, di Jnana. (Jñāna-karma-sannyāsa-yogaḥ, Bhagavad Gita, libro quarto).



La tradizione

La via della conoscenza o jnana marga dei samkhya, diventa jnana yoga proprio a partire dal tirocinio di Arjuna, i fondamenti rimangono immutati e assieme a bhakti, devozione e karma, azioni, si rivela essere uno delle tre tecniche dell’unione. Jnana nella Gita è una conoscenza che conduce alla natura di Krisna, una natura sattvica, pura e quindi benevola che estingue quella tamasica, la natura grossolana dell’ignoranza che è nemica dell’uomo orientato all’esperienza metafisica. Adi Shankara, maestro del monismo, principio unico monoteistico, dell’Advaita Vedanta, vissuto tra il VII e l’VIII secolo, dedica ampio spazio al commento della Bhagavad Gita attribuendo allo yoga della gnosi, della conoscenza religiosa, un rilievo fondamentale nella ricerca della realizzazione. 
L’ignoranza o avidya (da notare le alfa privative della lingua indoeuropea, proprie anche del greco antico, ma non solo) causa ogni genere di male. Il dolore consta nel fatto che l’anima individuale non conosce, ignora, il fatto di essere in Brahman: risolta la distinzione la vita individuale può riposare in quella universale accedendo alla condizione primigenia di esistenza, conoscenza e beatitudine, sat, chit e ananda.



Insegnamento e apprendimento

Lo yoga praticato da uno jnani è essenzialmente la pratica introspettiva che principia con l’osservazione del proprio essere individuale per trascendere questa stessa percezione e risolvere quindi la dualità. Seguendo i solchi della pedagogia tradizionale indiana, si richiede allo jnani di far riferimento ad un guru che, per esser tale, ha esperito il percorso che conduce alla non dualità. Quattro principi generali ne reggono la metodologia di insegnamento e apprendimento: il distacco dall’inutilità dei piaceri o vairagya, la discriminazione tra reale ed irreale attraverso l’osservazione o viveka, desiderio intenso di trascendere l’illusorio percepito ed affettivo ed infine rimanere fermi nel contemplare le sei virtù fondamentali. Queste ultime sono quindi: la matrice del sé individuale o dama, la quiete emozionale o sama, la resistenza di fronte agli inevitabili assalti dell’esistenza personale o titiksha, la ferrea fiducia nell’insegnamento o shraddha, la corretta attenzione o samadhana, la piena accettazione della difficoltà di esistere (www.advaita.org.uk, Ram Chandran, Sadhana Chatushtaya, luglio, 2012).

Jnani yogi contemporanei

In India l’uomo che ha reciso il legame con la realtà fenomenica, nel suo risuonare sul piano emozionale, non si cura di creare nuovi culti centrati su questa o quella divinità da omaggiare attraverso articolate ritualità condivise. Coerentemente alle premesse ed ai risultati eventualmente raggiunti gli jnani yogi non mostrano interesse nel creare un network pro o contro l’establishment ad indicare intenzioni di proselitismo o cavalcare rivisitazioni della controcultura o improbabili gnosi diffuse sulla rete. I dati riportano che lo jnani riconoscibile come guru, secondo la tradizione, non sempre intende modificare lo status della propria quotidianità fondando ashram o altri centri educativi o spirituali; può esser sufficiente il luogo dove vive attorno al quale tuttalpiù sorgerà un ashram per facilitare il lavoro dei praticanti. Ramana Maharshi (1879 – 1950) vive dall’età di sedici anni il resto della propria esistenza ai piedi del monte Arunachala nello stato del Tamil Nadu. Chi gli si accosta può entrare liberamente a far parte di un ashram anche se ampia parte dei “ricercatori” dello spirito del tempo si susseguono per gli intensi e spesso silenti satsang. Maharshi non insegna asana, posizioni yogiche, o pranayama, esercizi di respirazione, ma ripete che non si è il proprio corpo e allo stesso modo non si è neppure la propria attività rappresentativa. Il solo fatto di prenderne coscienza crea rimandi che manifestano l’impermanenza delle convinzioni sulla propria natura: un percorso gnostico, di conoscenza religiosa. In un percorso affine a quello advaita di Shankara il cercatore procede rigorosamente per sottrazione. Nulla aggiunge, non crede nel vantaggio di apportare conoscenze che appesantirebbero l’attività cognitiva che invece va dezavorrata. Si giunge al cospetto della mente naturale da cui tutto avanza; è la radice dove sonno, sogno e veglia sono ancora indifferenziati. Collocare la propria presenza in questa condizione e lì lasciarla semplicemente essere testimone delle costruzioni dell’attività rappresentativa è la liberazione in questa vita. Sottigliezze filosofiche ed ardite teofanie sono per Maharshi nulla più di un elaborato pronunciarsi dell’inquietudine, lo stare quietamente alla fonte dell’attività permette di non dover rinunciare al mondo senza per questo doverne essere scalfiti. Sarà sufficiente chiedersi “chi sono?” gradualmente la stessa domanda cesserà di esistere (E. Zolla, Le tre vie, 42, Milano, 1995). Un altro maestro contemporaneo dello yoga della conoscenza è Nisargadatta Maharaj (1897 – 1981). Nella sua vita di uomo sposato con tre figli si dedica al commercio di sigari bidi nella città di Mumbai, la sua biografia, come per Ramana Maharshi, non racconta di imprese titaniche legate alla pratica e alla diffusione del suo sapere. All’età di 33 anni dopo una breve pratica del mantra Brahmasmi (io sono il Supremo) impartitogli dal suo guru Sri Siddharameshwar ottiene l’affrancamento intrapersonale dagli affanni mondani. Al primo piano della propria abitazione, invasa dal caos della vita della città, Nisargadatta accoglie pochi curiosi che si avvicinano e si alternano nel corso delle giornate in cui insegna. Alle domande che gli vengono poste egli riporta alla logica della tradizione advaita e quindi al riconoscimento della non dualità. Collocandosi alle radici del proprio essere è dato giungere alla condizione quasi estatica dove l’unica certezza è proprio quella di essere: cosa e come non interessa particolarmente Nisargadatta ed a quel punto neppure gli astanti. La logica ferrea insegnata con la presenza piuttosto che con articolate argomentazioni sono sufficienti a lasciare la sensazione che aprendosi all’essere si sia in grado di contenerlo: la dimensione razionale intercetta quella mistica e jnana può compiersi nelle menti che hanno la vigoria per portare la cognizione all’intuizione e viceversa. Il processo che vive l’allievo di Nisargadatta è di decostruzione cognitiva progressiva, mai patologica, e a chi intraprende questo cammino è richiesta la capacità di non farsi sopraffare da correnti emozionali distraenti: esse sussistono e la pura attenzione ne prende al più atto. Ciò che rimane è il testimone, tutto è come deve essere e nessun guadagno come nessuna perdita il testimone può vivere in modo affettivamente coinvolto.

Le neuroscienze

Nelle neuroscienze la presenza intesa dal Jnana yoga si può accostare allo stato noto come task positive network dove una rete di aree cerebrali nel corso di un compito riesce a deattivare la condizione nota come default mode network. Quest’ultima è la condizione di parziale inattività nel corso della quale il cervello entra in quella fase di riflessione e pianificazione che può però portare ad indesiderate esperienze di ansia e depressione attivando l’area dell’amigdala deputata alla gestione di ansia e paura. In simili casi, ritornare nel presente, significa attivare il task positive network cognitivo – cerebrale che può tra l’altro consistere nello stato di vigilanza capace di interrompere il mind wondering del default mode network ridimensionando l’impatto di pensieri forieri di ansia e paura (D. Rock Humans are mentally checked out, unhappily, nearly half the time, Pshycology Today, 2010).

Conclusioni

Il cammino della conoscenza si presenta come assai arduo. Nel libro quattro della Bahagavad Gita Krishna indica ad Arjuna come la Conoscenza Suprema da raggiungere per mezzo di jnana yoga viene frustrata dalla naturale ricerca di soddisfacimento della creatura vivente (BG, capitolo IV, verso XII). I sensi non hanno una natura ontologicamente malvagia ma sono riconosciuti per la difficoltà che creano nel procedere soteriologico: il dialogo con la gnosi occidentale appare evidente. Un cammino di tipo gnostico richiede un discernimento che mette in discussione le fondamenta stesse della vita individuale ossia la dimensione affettiva e quella sensibile. Il momento che precede la realizzazione è quello che in cui si giunge a livello di quello che Nisargadatta chiama semplicemente Io sono. Le categorie sono sempre quelle di spazio e di tempo, si parla di momento e momenti. Quello dell’Io sono è collocato nel tempo presente e nello spazio del corpo – individuo. Le persone che hanno esperito tale condizione sanno che se la lanterna della ragione si mantiene salda il passaggio immediatamente successivo pare procedere contrariamente alla natura: i sensi proiettati all’esterno, per ragioni di sopravvivenza, si trovano a cogliere quanto presente nell’ambiente senza gli usuali nessi dell’apparato affettivo (emozioni, stati d’animo e sentimenti). Quell’articolato dispositivo funzionale al cervello e al corpo che è la mente diviene uno specchio terso. La retroazione del corpo è piacevole, il tribolare spesso inutile si acquieta ed è possibile vivere l’esperienza descritta da Nisargadatta e predecessori senza siddhi, corpi sottili o anime fluttuanti in un processo che da cognitivo muta ora in intuitivo. Da quel momento può far capolino il sentimento di bhakti, ma siamo nel campo del sentire individuale, un tema che merita di essere affrontato in altra sede.

Riferimenti
www.advaita.org.uk, Ram Chandran, Sadhana Chatushtaya, luglio, 2012
R. Maharshi, Opere, ed. Astrolabio Ubaldini, Roma, 2012
M. Nisargadatta Io sono quello. Conversazioni con il maestro, ed. Astrolabio Ubaldini, Roma, 2001
S. Peterlini, Bhagavad Gita, ed. Il Punto d’incontro, Vicenza, 2014
D. Rock Humans are mentally checked out, unhappily, nearly half the time, Pshycology Today, NY, 2010
A. Wilson, Meditation and the Default Mode Network, Inner Light Pubblishers, 2020
E. Zolla, Le tre vie, Adelphi, Milano, 1995


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