Yoga Sutra: otto passi, Yama e Nyama, IIa parte II° libro [YS2:29-45]

luglio 19, 2017



Questi sutra sono il cuore dell'opera di Patanjali. L'autore, dopo aver dato tutte le definizioni indispensabili per delineare il campo nel quale sta operando, fornisce la ricetta, passo per passo, per arrivare alla beatitudine. Sebbene Patanjali indichi questi punti come passi successivi, non devono essere considerati compartimenti avulsi gli uni dagli altri, ma essi formano un'unica pratica dello yoga integrandosi tra loro. Sono successivi, ma integrati. E' stato spesso affermato Patanjali abbia un approccio scientifico proprio perché prescrive un percorso di azioni da compiere per arrivare all'illuminazione, alla cessazione della sofferenza ed alla beatitudine. Non è vago, non dice che un bel momento capirai, ma prescrive una ricetta, una via, uno stile di vita. Inevitabilmente, il commento a ogni singolo aspetto che compone lo yoga, sarà più esteso di quanto fatto per il resto dell'opera; Patanjali utilizza spesso un solo termine per significare un concetto, che va necessariamente contestualizzato. Iniziamo quindi con i le norme di comportamento, etiche ovvero yama e morali ovvero nyama. Fino a questo momento inoltre non abbiamo mai lasciato termini in sanscrito nella traduzione, per non appesantire il discorso e non rimandare a successive definizioni; per gli otto passi dell'Ashtanga Yoga faremo un'eccezione in quanto sono termini a cui tutti gli yogin si riferiscono comunemente e che sono diventati veri e propri monumenti. Ogni singolo termine ha dato luogo a sterminate disquisizioni, ma il filo del discorso è, in questa seconda parte del secondo libro, piuttosto lineare. Ecco lo Yoga di Patanjali:


29:II. Yama niyama asana pranayama pratyahara dharana dhyana samadhayo ‘stavangani
Gli otto passi dello yoga sono:
> yama: osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri
> niyama: osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi
> asana: le posizioni del corpo
> pranayama: il controllo della respirazione
> pratyahara: l'introspezione e il ritiro dei sensi,
> dharana: la capacità di concentrazione
> dhyana: la meditazione
> samadhi: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito universale e la beatitudine che ne deriva.


30. Ahimsa satya asteya brahmacarya aparigraha yamah
Yama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri, si compone a sua volta di cinque regole:
> ahimsa: non violenza ,
> satya: verità ,
> asteya: onestà,
> brahmacharya: morigeratezza
> aparigraha: possedere solo l'indispensabile.


Entra ora nel vivo la trattazione analitica di tutti e otto gli elementi costitutivi dello yoga. Il percorso dello yoga è sicuramente un percorso di crescita individuale interiore, l'obiettivo finale è dentro di noi, eppure il primo gradino sono le norme “sociali”. Anche l'asceta non può vivere scollegato dalla società che lo circonda, ma al contrario lo yogin deve influenzarla positivamente ed agire nel sociale. Gli appassionati di questo messaggio troveranno nella Baghavat Gita una lettura entusiasmante, in particolare nel commentario di Sri Aurobindo, fermo sostenitore dello yoga delle opere.

La prima e più importante regola etica dello yoga, il primo gradino da intraprendere sulla via della beatitudine, è la non violenza. Letteralmente il termine significa a=non, himsa= nuocere o uccidere.
Questo è esattamente il concetto assunto a principio dal Mahatma Gandhi, estimatore degli Yoga Sutra. Uccidere, imporre sofferenze o essere partecipi all'uccisione o alla sofferenza di qualsiasi essere ha delle conseguenze a cascata sul mondo e su di noi, è contrario alla purificazione e il karma che ne deriva è considerato cattivo sotto ogni aspetto. Per Patanjali la non violenza è una condizione irrinunciabile anche solo per iniziare la via dello yoga. Non è solo Patanjali a indicare questa via, tutto l'Induismo, da cui nasce ogni forma di yoga tradizionale, prescrive la non violenza. Ognuno è artefice del proprio destino e purtroppo a volte anche del destino degli altri esseri. Patanjali ha definito l'ignoranza proprio come considerare piacere ciò che arreca dolore. L'autore ha inoltre precedentemente trattato le leggi del karma ovvero le conseguenze delle azioni, proprio per far avere al lettore le basi di questi principi che ora sta trattando: “Ogni azione che genera sofferenza ha una conseguenza sia nel presente che nel futuro” (YS 2:12).
E' necessario chiarire che viene considerata violenza ogni azione in cui si vuole nuocere, in cui si esprime la specifica intenzione. Se la colpa deriva da un'azione fatta senza volontà, non è una colpa. Gli animali non hanno colpe, l'ignorante si, perché sa di nuocere. Inoltre, secondo le regole del karma, quando un'azione comporta inevitabilmente una sofferenza, bisogna scegliere la sofferenza minore. Focalizzandoci un momento su alcuni temi divenuti di conversazione comune, possiamo dire che per questi motivi chi pratica l'ahimsa adotta determinate regole alimentari, è inutile forzare il ragionamento in altre direzioni. Ma anche, per le ragioni legate alla volontà o all'evitabilità del nuocere, gli yogin non andranno in giro con la mascherina davanti alla bocca per non inspirare i microrganismi, come fanno alcuni sacerdoti gianisti, oppure non denigreranno l'agricoltura perché può comportare la morte di alcuni insetti. E ancora, per analizzare alcune obiezioni comuni nella dialettica, ma forse un po' sciocche, anche se mangiare frutti comportasse veramente la sofferenza delle piante, non nutrirsi sarebbe considerabile violenza contro se stessi e quindi un male peggiore.
Qualcuno, infine, traduce ahimsa con “amore”, è suggestivo e corretto, ma secondo chi scrive un po' forzato, amore in sanscrito si indica con la parola “rati”. Non-violenza significa comunque sicuramente anche “amore”.

Il secondo precetto delle regole etiche è Satya, termine sacro in tutto l'oriente che significa “la Verità”, concetto che si spinge un po' oltre alla verità di pensiero, parola ed azione, oltre al vivere senza menzogna ed essere se stessi. Satya, Verità, è uno dei nomi di Visnù. Le quattro nobili verità sono il principio chiave del Buddhismo, duḥkha-satya: verità del dolore; samudaya-satya: verità dell'origine del dolore ; nirodha-satya: verità della cessazione del dolore; mārga-satya: verità della via che porta alla cessazione del dolore. Se ne potrebbe parlare a lungo, ma credo che il significato profondo risuoni nel cuore di ognuno di noi. Un aspetto ampiamente dibattuto nelle scuole filosofiche orientali è se bisogna dire o agire secondo verità qualora questo comporti sofferenza o violenza; gli esempi possono essere moltissimi e nei miti orientali sono molto comuni. La risposta in merito è pressochè unanime: non bisogna agire secondo verità, quando questo agire comporti sofferenza o violenza. Cosa fare se la verità rischia di ferire? Nell’antico poema epico del Mahabharata, si discute questo apparente dilemma: «La verità dovrebbe essere detta solo se piacevole e con modi piacevoli; la verità che ferisce non andrebbe detta. Tuttavia non si dovrebbe mai mentire per compiacere qualcuno». Queste azioni o menzogne diciamo “a fin di bene” seppure inevitabili possono avere delle conseguenze non positive (cattivo karma), ma comunque migliori di quelle che si verificherebbero se dicessimo la verità. La non violenza è il primo ineluttabile principio e tutti i precetti sono in ordine di importanza, quindi bisogna trasgredire quello meno importante qualora comporti l'infrazione di quello più importante. Questa è la regola generale.

Asteya, l'onestà, può avere varie sfumature: dal semplice non rubare al non desiderare le cose degli altri, dal non essere avari ad abbandonare il concetto di “mio”, eccetera. Brahma-charya o morigeratezza, comporta il non abbandonarsi alle passioni, ma in realtà il termine composto significa letteralmente “condotta in armonia con lo spirito assoluto”, quindi anche in questo caso il concetto va leggermente oltre la continenza sessuale o alimentare, di cui però costituiscono l'inizio. Aparigraha, quinto e ultimo precetto etico, è il non-possesso ovvero il possedere solo l'indispensabile. Ai monaci buddisti è concesso di possedere la veste da indossare e la ciotola con la quale ricevere le offerte e sfamarsi. In questo caso il necessario è ridotto "all'osso", ma ho conosciuto monaci, anche in vista, che avevano nella stanza l'impianto Hi-Fi e questo non li rendeva sicuramente dei trasgressori, ma il concetto alla base del precetto è anche che nel tempo cambiano le necessità e che comunque ci sono delle priorità che devono avere la precedenza rispetto al possesso, ad esempio legate ai primi quattro yama più importanti rispetto a aparigraha.


31. Ete jati desa kala samayanavacchinnah sarvabhauma mahavratam
Queste cinque norme, che formano la prima grande regola dello yoga si applicano senza riguardo al ruolo sociale, al luogo, al tempo o alle circostanze.

Patanjali sembra aggiungere a margine: “non cercate scuse invocando principi sopra di voi”. Come dicevamo, l'infrazione può essere giustificata esclusivamente dal rispetto di uno dei principi più elevati, di cui la non violenza è quello più elevato di tutti, che non può essere mai infranto. Non è possibile trovare giustificazioni dell'infrazione legate ai tempi, ovvero affermare che oggigiorno ormai è anacronistico rispettare una certa prescrizione o che la società si è evoluta percui rubare è diventata la prassi oppure addurre una giustificazione legata al luogo in cui ci si trova, addossando agli usi e costumi di un certo paese le nostre infrazioni. Quindi non possiamo appellarci nemmeno alle circostanze contingenti , lo scoppio di una guerra o una catastrofe, oppure, molto importante, al ruolo che si occupa nella società (l'autore scrive “jati”, termine che fa riferimento alle caste, le caste a nostro giudizio esistono in ogni tempo e in ogni luogo). Se siamo militari non siamo legittimati a fare violenza o uccidere a meno che non scongiuri violenze più grandi, così come è esecrabile in ogni caso svolgere compiti che comportano sofferenza evitabili a uomini o animali. Per questo motivo determinati mestieri, come il conciatore, in India sono svolti quasi esclusivamente da persone che hanno altri valori di riferimento, musulmani o fuori casta.


32:II. Sauca samtosa tapa svadhyayesvara pranidhanani niyamah
Niyama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi, si compone di cinque regole:
>sauca: purezza,
>santosa: appagamento,
>tapah: disciplina, pratica intensa,
>svadhyaya: studio di se stessi‚
>isvara: abbandono allo spirito superiore.


Yama e niyama sono dieci regole generali, la tentazione di fare un raffronto con i dieci comandamenti biblici potrebbe essere forte, ma, seppure alcuni punti siano simili, siamo in un campo completamente diverso, le dieci regole di Patanjali mirano alla crescita interiore, non sono proibizioni, sono passi progressivi in un percorso.

La purezza a cui rimanda il primo precetto che dobbiamo rispettare verso noi stessi, sauca, è la purezza di corpo, mente e spirito generata dal percorso attraverso i sette chakra ed al conseguente fluire dell'energia, coerentemente con l'interpretazione che avevamo fornito nei sutra precedenti (YS 2:27). Questa purezza si raggiunge con la pratica di tutti gli otto passi dello yoga. Quindi, in questa chiave, il più importante precetto morale è di praticare. Senza pratica non c'e' yoga. Il termine può rimandare anche ad una purezza meno elevata, intesa come igiene personale e dei luoghi di pratica, in questo contesto di massimi sistemi sembra fuori argomento un tale riferimento, ma in India molti maestri citano il concetto di sauca in rapporto all'igene. In realtà questo è coerente con lo schema dei cinque corpi, da quello fisico a quello spirituale, propri del pensiero Indiano ed ayurvedico, cui sauca si riferisce. E' una purezza complessiva quella che ne risulta.

Il secondo punto è l'appagamento, o santosa, chiave di volta della cessazione dei desideri e cardine del distacco. Una persona più saggia di me diceva che la felicità è inversamente proporzionale alla differenza tra le mie aspettative e ciò che sono oppure ho. Se le mie aspettative sono poche, sarò molto felice, se non ho aspettative, la felicità tenderà all'infinito. Nella nostra cultura consumistica e di bisogni indotti, seppure nessuno di noi aspiri probabilmente a diventare un monaco, questo precetto è particolarmente prezioso. L'appagamento derivante da un desiderio materiale realizzato può essere molto inferiore all'angoscia che esso ha generato mentre era irrisolto, questo è un trucco della mente per mantenere il predominio e mantenerci nella sofferenza. Il distacco è la chiave, diceva Patanjali poco sopra. Questo principio può facilmente essere applicato a tutte le nostre azioni, dobbiamo agire con distacco verso i frutti che trarremo, senza diventare dipendenti da essi. Praticherò quindi le asana perché esse mi giovano sotto vari aspetti, ma senza diventare schiavo del risultato; che riesca o meno a compiere una posizione non ha importanza, è importante il tentativo; esisteranno sempre posizioni che faccio con facilità e posizioni che non riesco a fare, il giusto percorso è per Patanjali, come abbiamo visto, mantenersi nella massima intensità. Il risultato finale è ininfluente e rischia di generare, come minimo, attaccamento, ma anche invidia, frustrazione, mancanza di entusiasmo e falsi obiettivi (confronta YS 1:30).

La disciplina o tapah, è, come abbiamo visto uno dei principi chiave della pratica, ovvero l'intensità. Letteralmente significa calore, il calore che brucia le impurità del corpo e della mente. Nel Rig Veda acquisirà il significato di austerità. Allo stesso modo sia lo studio di se stessi che l'abbandono allo spirito superiore o isvara sono concetti sui quali Patanjali già si è espresso. Come sappiamo la pratica deve essere adattata alle esigenze personali e consiste in un intenso e metodico esercizio lungo la via degli otto passi. In alcuni casi, proprio quando l'obiettivo finale di ricongiungimento con lo spirito superiore sembra precluso, al massimo dell'impegno, può essere necessario abbandonarsi.


33:II. Vitarka badhane prati paksa bhavanam
In caso di difficoltà causata da pensieri nocivi è possibile neutralizzarli con i pensieri opposti.

34:II. Vitarka himsadayah krta karitanumodita lobha krodha moha purvaka
mrdumadhyadhimatra duhkha jnananantaphala iti pratipaksa bhavanam
I pensieri nocivi sono la violenza e le altre cause di dolore. Possono essere compiuti direttamente, imposti con le parole o approvati mentalmente; provengono da sentimenti di cupidigia, ira e altre condizioni di confusione; possono essere deboli, medi o intensi e portano inevitabilmente dolore e sono causati dall'ignoranza. Perciò è necessario coltivare le opposte inclinazioni.

L'esercizio proposto da Patanjali può sembrare banale, ma non lo è. Per eliminare dalla mente i pensieri negativi o gli atteggiamenti che sappiamo arrecare sofferenza, è sufficiente concentrarsi sui pensieri o sui comportamenti opposti. Questo precetto ha moltissime applicazioni, come, ad esempio, soffermarsi sempre sulle caratteristiche positive delle persone o delle situazioni, oppure eliminare dalla mente un pensiero capendo che ci farà soffrire e che in quel momento abbiamo bisogno dell'atteggiamento opposto. La violenza e tutte le sue conseguenze, possono avere sfumature e gradazioni diverse, pensare ad una violenza verbale ad esempio, non è come compiere una violenza fisica, ma, comunque, quale sia la gradazione, l'unica certezza è che questi comportamenti causeranno sofferenza, seppure secondo una scala di sfumature crescenti.
Coltivando inclinazioni, pensieri e azioni positivi, avremo un effetto positivo sulla realtà che ci circonda.


35:II. Ahimsa pratisthayam tat sannidhau vaira tyagah
La solidità di aimsha, la non violenza, porterà l'abbandonano delle ostilità.

Vengono ora elencati gli effetti della pratica dei principi di yama e nyiama. Questo passaggio può essere inteso con un duplice significato. Il primo è che essendo noi stessi solidi nella qualità della non violenza indurremmo gli altri a non essere violenti. Il secondo è che se tutti praticassero la non violenza nessuno sarebbe ostile contro il prossimo perché verrebbe meno il motivo del contendere. Entrambe le interpretazioni mi sembrano coerenti, accettabili e partecipi dello stesso disegno che Patanjali sta tracciando tra procetti verso se stessi e verso la società.
Questo sutra è spesso invece tradotto con una terza sfumatura ovvero che la sola presenza dello yogin saldo in aimsha è sufficiente a disinnescare i conflitti, semanticamente correttissimo, ma, a giudizio di chi scrive, leggermente limitante. Il significato proposto è, crediamo, più generale e di senso comune.


36:II.Satya-pratisthayam kriya-phalasrayatvam
La solidità di satya, la verità, farà conseguire i frutti dell'azione senza agire.

Colui che è illuminato dalla verità riesce a trasmetterla agli altri rendendo inutile qualsiasi azione. La verità è il fine ultimo. Quando la verità illumina tutte le persone il fine è già raggiunto, non c'e' bisogno di ulteriori azioni. Analogamente a quanto detto relativamente al sutra 35, non interpretiamo questo sutra con la sfumatura che la sola presenza dello yogin basti a influenzare le situazioni senza agire, infondendo la verità. Questa interpretazione porta poi come estremizzazione ad affermare che la sola presenza del guru, del maestro, sia sufficiente ad illuminare i discepoli. Patanjali non crediamo voglia dire questo, e tale principio seppure esalti il ruolo del guru, limiterebbe il senso della pratica, in contrasto con quanto sin qui esposto.


37:II. Asteya pratisthayam sarva ratnopasthanam
La solidità di asteya, l'onestà, farà raggiungere la ricchezza.

38:II. Brahma carya pratisthayam virya labhah
La solidità di brahmacharya, la morigeratezza, porterà l'acquisizione di energia.

39:II. Aparigraha sthairye janma kathanta sambodhah
La solidità di aparigraha, possedere solo l'indispensabile, farà comprendere lo scopo dell'esistenza.

L'onestà è in realtà essa stessa una ricchezza, percui una volta raggiunta un'onestà senza tentennamenti o la comunione con le persone con le quali viviamo, saremo già ricchi. Allo stesso modo l'energia non si consegue soltanto bruciando, trasformando altre energie, ma anche risparmiando queste.

Sono state elencate quindi tutte e cinque le osservanze delle norme di comportamento etiche verso gli altri e capiamo meglio come mai queste siano passi successivi, partendo dalla prima, più importante, perché venendo a mancare cadono tutte le altre, piano piano si arriva allo scopo ultimo, al quale partecipano tutte le precedenti. Non possedere cose materiali, il non-possesso, il non attaccamento ai concetti di dolore e soprattutto piacere, porterà lo yogin a comprendere il senso dell'esistenza, ovvero la sapienza più elevata.

40:II. Saucat-svanga-jugupsa parair-asamsargah
Sauca, la purezza, farà raggiungere il distacco dalle cose materiali.

41:II. Sattva-suddhi-saumanasyaikagryendriya-jayatma-darsana-yogyatvani
La purezza genera felicità, potere di concentrazione, controllo dei sensi, e capacità di realizzare il Sé.

42:II. Samtosad-anuttama sukha-labhah
Santosa, l'appagamento, genera la felicità suprema.

43:II. Kayendriya-siddhir-asuddhi-ksayat-tapasah
Tapah, la disciplina, elimina le impurità e porta la perfezione del corpo e dei sensi.

44:II. Svadhyayad-ista-devata-samprayogah
Svadhyaya, lo studio di se stessi‚ porta a percepire la propria parte spirituale individuale.

45:II. Samadhi-siddhir-isvara-pranidhanat
Isvara, l'abbandono allo spirito superemo, porta all'unione dello spirito individuale con lo spirito superemo.

Patanjali elenca ora i frutti delle cinque osservanze delle norme morali verso se stessi. La pratica, il cui scopo è la purificazione, porterà al distacco dalle cose del mondo e la possibilità di accedere alle successive qualità. Il ragionamento è motlo lineare.

La pratica porta alla purificazione, si superano cioè gli elementi grossolani del proprio essere, si acquisisce sottigliezza, raffinatezza, si diviene “il tempio dell'essere surpemo” a cui ci si ricongiunge. Alcuni osservano giustamente che l'atteggiamento di Patanjali non è moralistico, egli non afferma di non nuocere al prossimo e di rispettare gli altri precetti perché esiste una legge superiore, ma solamente con lo scopo di purificare se stessi e trascendere il proprio spirito. La punizione è una vita infelice in questo mondo e cattive conseguenze delle nostre azioni.

Avendo regolato le norme di comportamento verso noi stessi e verso gli altri, possiamo giungere all'obiettivo finale dello yoga ovvero il samadhi, il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito superemo. Se questi fossero visti unicamente come passi successivi, non avremmo necessità di aggiungere altri passi alla nostra pratica. Come abbiamo detto più volte, sono passi successivi, ma si influenzano l'un l'altro favorendo il raggiungimento degli obiettivi. Le successive pratiche concorreranno al conseguimento di yama e niyama. E' stato dibattuto se gli spiriti illuminati potrebbero non avere necessità della pratica costituita dai successivi passi sulla via dell'ashtanga yoga, ma la questione non ci sembra di particolare interesse.

Nel prossimo articolo tratteremo il tema che forse più interessa i praticanti moderni, le posizioni o asana, gli esercizi di respirazione e la meditazione.


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