Yoga Sutra: la perfetta conoscenza, IIIa parte del III° libro [YS:44-52]

ottobre 09, 2017


Gli ultimi sutra del III libro di Patanjali cercano una risposta alle domande ancestrali dell'uomo: chi siamo, qual'è il senso della vita, cosa è la realtà che ci circonda. La pratica dello yoga, secondo l'autore, getta chiarezza su questi aspetti, una volta arrivata alla sua massima vetta. Questi sono i doni finali che si possono conseguire, prima della grande liberazione finale, quando non sarà più necessaria nemmeno alcuna pratica. Abbiamo voluto isolare questi dodici sutra perché per alcuni praticanti rivestono un senso particolare e gettano una nuova luce sull'essenza profonda dello yoga. Non vogliamo dire che siano tutti di semplice e immediata comprensione, ma  soffermandosi alcuni istanti su taluni passaggi e rapportandoli alla propria esperienza quotidiana di pratica, talvolta può iniziare un fruttuoso processo di approfondimento. Questa almeno è la testimonianza raccolta da diversi maestri.

YSIII:44.bahir akalpita vrttih maha videha tatah prakasa avarana ksayah
Entrando in contatto con lo stato di consapevolezza esistente all'esterno dei pensieri, e che pertanto è inconcepibile razionalmente, si raggiunge la grande conoscenza o mahavidya. Grazie ad essa cade il velo sul vero sè.

Grazie alla pratica dello yoga, in particolare durante gli ultimi stadi più meditativi, abbiamo detto si sperimenta la consapevolezza dello spirito al proprio interno, arrivando all'eliminazione delle oscillazioni della mente. In modo analogo è possibile sperimentare anche consapevolezza dello spirito al di fuori di noi, dello spirito che tutto pervade, ciò non avviene grazie alla mente o ai pensieri; il testo ci dice che tale consapevolezza è inconcepibile razionalmente. Questa rivelazione  fa capire che la separazione attuata fino a questo punto nell'opera, tra spirito individuale, spirito assoluto e spirito che tutto pervade, non ha senso di esistere; anzi ha senso nella misura in cui diviene funzionale per arrivare a comprendere che lo spirito è uno. Noi uomini siamo un'unica entità e siamo della stessa essenza dello spirito. Yoga significa unione. Pausa. L'opera di Patanjali va metabolizzata, a nostro giudizio, proprio mediante la pratica. Forse non arriveremo mai ad una consapevolezza dello spirito che tutto pervade, interno ed esterno a noi, come ce la sta delineando in questi passaggi l'autore, tra i massimi doni dello yoga, ma qualche intuizione in questo senso potremmo averla colta o ricercarla in futuro.

YSIII:45. sthula svarupa suksma anvaya arthavattva samyamat bhutajayah
 Incentrando la pratica sugli aspetti della materia: grossolani, sottili, intrinsechi e pervasivi, si ottiene la padronanza del proprio essere.

Siamo arrivati ai doni più profondi che la pratica dello yoga può regalare. L'autore invita a concentrare la pratica sulla realtà fisica tangibile e su quella intangibile nonché sugli aspetti nascosti e su quelli espliciti. Osservando al nostro interno le caratteristiche del mondo fisico e quindi distinguendo chiaramente da esso il  mondo spirituale, otteniamo il controllo finale del nostro essere. Il discorso riprende il concetto del sutra precedente: la conoscenza dello spirito dentro di noi ed esterno a noi, anche in relazione al mondo materiale, ci fa capire chi siamo. Questo sutra è intimamento connesso con il concetto di Dharma, anche se non viene espressamente citato. In questo senso intenderemo gli aspetti della materia e il mondo fisico, come il mondo in cui le cose sono ovvero come la legge naturale. Per un approfondimento rimandiamo alla sterminata letteratura buddista, induista, janista e sikh in merito.

YSIII:46. tato anima adi pradurbhavah kayasampat tad dharanabhighatsca
Da qui si conseguono le altre perfezioni, quali la perfezione del corpo e la rimozione di tutti gli ostacoli.

47. rupa lavaṇya bala vajra samhananatvani kayasampat
Questa perfezione del corpo include bellezza, grazia, forza e fermezza.

Patanjali afferma che giunti a questo livello della pratica e raggiunte tutte le precedenti capacità, si arriva alla perfetta integrazione dei cinque corpi immaginati dalla tradizione ayurvedica, quindi di tutto l'essere, e si arriva , udite bene, alla rimozione degli ostacoli nella vita. Un essere illuminato difficilmente incontra ostacoli sul suo cammino, li ha già risolti dentro di sé. Siamo noi che creiamo i nostri stessi ostacoli: distaccàti dalle cose materiali e dalle emozioni, nulla può ostacolare la perfetta felicità. La tradizione indiana ritiene che i pensieri, ma più in generale il nostro modo di essere e di raffrontarci con il mondo, possano influenzare profondamente gli avvenimenti, persino, al limite, quando non direttamente correlati al nostro operato, il discorso potrebbe anche essere inteso in questo senso.
Come dicevamo, la perfezione del corpo, kaya sampat, è in realtà la perfezione dei cinque corpi ed il loro allineamento, così come immaginati dal pensiero classico indiano. Essi sono:  Annamayakosa, il corpo grossolano; Pranamayakosa, il corpo energetico, Manomayakosa, il corpo mentale; Vijnanamayakosa, il corpo intellettuale e Anandamayakosa, il corpo della beatitudine.  Le qualità raggiutne dalla perfezione di questi cinque corpi sembrano piuttosto chiare: bellezza, grazia, forza, fermezza. Sono qualità da intendere estese a tutti e cinque i corpi, quindi quando parliamo di bellezza, stiamo parlando di bellezza fisica, bellezza dell'energia che lo pervade, bellezza dei pensieri e dei ragionamenti e infine bellezza dell'illuminazione e della felicità raggiunta. La forza del fisico riflette la forza della mente, raggiunta grazie all'energia che lo pervade e con la quale raggiungiamo l'illuminazione. E così via.

YSIII:48. grahaṇa svarupa asmita avaya arthavattva samyamat indriya jayah
Incentrando la pratica sul potere cognitivo dei sensi, sulla loro vera natura, sul loro rapporto con l'ego e con la vitalità, si ottiene la loro padronanza.

YSIII:49. tato mano javitvam vikarana bhavah pradhana jayash cha
Da qui segue la percezione istantanea, la liberazione dai sensi stessi e la completa padronanza del mondo materiale.

YSIII:50. sattva purusha anyata khyatimatrasya sarva bhava adhishthatritvam sarva jnatritvam cha
La padronanza dei sensi e l'onniscienza possono essere conseguiti solamente comprendendo a pieno la differenza tra il mondo fisico e il vero sè.

Molti testi classici di yoga quando arrivano a descrivere i livelli più evoluti della pratica e le condizioni che si raggiungono, ricorrono a una descrizione fortemente metaforica, immaginifica, descrivendo coni di luce, l'intervento divino, lo stato di estasi; Patanjali non lo fa.  Patanjali cerca di descrivere ogni passo, anzi ce lo descrive, siamo noi che cerchiamo di interpretare esattamente cosa voglia comunicarci. Egli ci ha descritto un viaggio attraverso il risveglio dell'energia e  lungo tutti e sette i chackra, compiuto grazie alla pratica  costante e intensa.

Patanjali ha affermato nei sutra precedenti, riassumendo, che conoscendo i sensi e la materia si raggiunge la perfezione del corpo e dello spirito. Ora aggiunge un ulteriore tassello, ovvero che dobbiamo approfondire e padroneggiare il potere cognitivo dei sensi. Abbiamo perso questo potere sia verso l'esterno, verso la natura, che verso l'interno, e, grazie alla pratica, dobbiamo risvegliarlo. Lo yoga, secondo Patanjali, non serve a disconnetterci dai sensi, ma ad incanalare il loro potere verso nuove strade, anche ampliandoli. Inizialmente ci ha detto che dobbiamo rivolgerli all'interno, poi successivamente superare gli input fisici che da essi provengono, ma alla fine possiamo goderne percependo grazie ad essi ciò che è spirito. Riflettiamo per un momento cosa voglia dire veramente incentrare la pratica sui sensi, tutti i sensi, ed utilizzarli per un tipo di conoscenza spirituale. E' un concetto molto elevato che può effettivamente dare un nuovo significato a tutta la  pratica dello yoga. Per utilizzare una metafora, Ramkrishna diceva che per capire il potere dei sensi possiamo pensare alla differenza che passa tra toccare una tazza per portarla alla bocca e toccare la mano della persona che amiamo per portarla alla bocca. Questa immagine è molto evocativa e ci fa forse intuire una scintilla di cosa accade quando i sensi incontrano i sentimenti e trascendono la materia.

Capire il rapporto dei sensi, e dell'attaccamento, con il nostro ego, concorre a conoscere la loro vera natura. La parola utilizzata per indicare l'ego è “asmita”,  che indica propriamente l'ego inteso come l'io o l'essere. I sensi non hanno ego, l'ego risiede nella mente, è questo il tema da indagare grazie alla pratica: l'essere dei sensi che trascende l'ego. Spero di aver reso il concetto in modo diretto e non filosofico.  
Infine, i sensi vanno riscoperti cercando di capire in cosa concorrano alla nostra vitalità, come percepiscano l'energia che ci tiene in vita, il prana, energia che dobbiamo riscoprire nel mondo. Si chiude così il cerchio con quanto già detto nei sutra precedenti riguardo allo yoga come disciplina per incanalare e risvegliare la coscienza dell'energia pranica.

Questa è la via per la liberazione dai sensi in quanto porta alla comprensione della distinzione che esiste tra la natura che ci circonda e il nostro intelletto da una parte e il nostro io più profondo (purusa) ovvero la nostra consapevolezza e lo spirito che tutto pervade dall'altra.

YSIII:51. tad vairagyad api dosa bija ksaye kaivalyam
Quando poi si è liberi dall'attaccamento a questi stessi poteri, si distrugge il seme che ci imprigiona. A questo punto segue la liberazione, kaivaiya.

YSIII:52. sthany upam nimantrane sanga smaya akaranam punar anishta prasangat
Si dovrebbe evitare qualsiasi attaccamento o orgoglio nei confronti dei poteri spirituali conseguiti, poiché questo porterebbe con sé la possibilità di risveglio di attitudini negative.

Patanjali inizia ad introdurre il tema del libro successivo, l'ultimo, quello che ha come argomento la liberazione,  kaivaiya. Ci dice che non dobbiamo rimanere attaccati e vincolati  neanche alla pratica stessa. Come molte altre arti, anche nello yoga, bisogna apprendere la tecnica, farla propria, dimenticarla e non preoccuparsi più del risultato. Ad un livello molto quotidiano, questo concetto significa anche non preoccuparsi di come appaiono le nostre asana; non preoccuparci se oggi non sentiamo le stesse stupende sensazioni durante la meditazione; in poche parole dobbiamo ignorare il risultato, perché la totalizzazione nella pratica stessa è il risultato. Quando arriviamo a questo livello otteniamo i poteri dello yoga perché la nostra gioia, la nostra illuminazione non dipende più da nulla. Ad un livello più alto, possiamo aggiungere che è sicuramente molto difficile abbandonare l'attaccamento verso il mondo materiale, con le estenuanti tecniche descritto nel secondo libro, ma è ancora più difficile abbandonare l'attaccamento al mondo spirituale ed i poteri descritti nel presente capitolo. Quando si sia dischiusa questa porta, abbandonarla è quasi impossibile, ma ciò conduce alla liberazione finale. Le consapevolezze spirituali possono addirittura far risvegliare sentimenti di immodestia, risvegliare il nostro ego giudicatore. Questa condizione, che tutti i maestri di yoga dovrebbero temere al massimo grado, può ritrascinare il praticante nell'abisso. Un maestro indiano, considerato un santo, diceva a me, che in quel momento ero l'ultimo degli uomini agli occhi di tutti i presenti: “io sono il tuo maestro, ma tu sei il mio maestro, io ti trasmetto il messaggio che tu mi permetti di vedere, grazie”, un discorso simile fa comprendere quanto gli Indiani aborriscano i discorsi autoreferenziali, l'auto esaltazione per la consapevolezza raggiunta, perché frutto del baratro dell'attaccamento quando non addirittura al mondo materiale, a quello spirituale. Al contrario la perfezione spirituale corrisponde alla massima umiltà, alla consapevolezza che nella perfezione dell'universo siamo un granello e che provare orgoglio per aver visto un poco oltre sarebbe ridicolo e ci rigetterebbe nell'abisso.

YSIII:53. ksana tat kramayoh samyamat vivekajam jnanam
Praticando nel momento presente si ottiene la conoscenza ultima della realtà.

Questo sutra è particolarmente chiaro per chi pratica yoga costantemente. Ogni fuga della mente in avanti o indietro durante la pratica, vanifica la pratica stessa. Ogni fuga verso sensazioni, percezioni o altro che abbiamo già provato è negativa e ostacola la pratica. Allo stesso modo l'attesa di qualcosa si tramuta in attaccamento. Qualcuno ha detto che l'atteggiamento dello yogin deve essere quello di uno spettatore senza spettacolo  e credo che renda molto bene l'idea [Questa interpretazione viene data spesso al terzo sutra del primo libro YSI:3 NdR]. Patanjali ci ricorda che l'unico attimo che conta è quello presente, ma va un pochino oltre, ci ricorda che questa riflessione è una delle chiavi della pratica e porta alla vera conoscenza, jnana, che è la conoscenza ultima, la realizzazione che lo spirito individuale coincide con lo spirito assoluto eterno, non nato ed immortale. Contraendo sempre dippiù l'attimo presente, esso diviene l'unico attimo eterno che era, è e sarà. Ciò avviene nel samadhi, la ricongiunzione dello spirito individuale con lo spirito assoluto. Questa è l'ultima realtà, dopo c'è solo la liberazione. Il concetto non è da poco se si pensa che per il Vedanta, l'Jnana Yoga è uno dei quattro sentieri di base per raggiungere la salvezza (insieme a Bhakti Yoga, Raja Yoga e Karma Yoga). Ma ci siamo spinti molto oltre.

54. jati laksana desaih anyata anavacchedat tulyayoh tatah pratipattih
Da qui nasce la capacità di distinguere tra oggetti simili che non possono essere differenziati da categorie, caratteristiche o posizione.

Avendo raggiunto la consapevolezza ultima, la conoscenza del tempo e del momento presente, il praticante di yoga è in grado di cogliere la vera essenza del mondo. Avendo compreso l'eternità si diviene capaci di conoscere le cose senza giudicarle dall'esterno, ma dalla loro profonda essenza. E' quindi possibile conoscere le persone per quello che sono realmente, immedesimarsi profondamente negli altri e non tentare più di conoscerle da come esse appaiono o si comportano. Questo concetto può essere esteso molto lontano. 

55.  tarakam sarva visayam sarvatha visayam akramam ceti vivekajam jnanam

La conoscenza superiore nata da tale consapevolezza è trascendente e include la cognizione di tutta la realtà contemporaneamente, in qualsiasi direzione, nel passato, nel presente e nel futuro.

Questo ultimo gradino permette al praticante di fondersi con lo spirito universale trascendente che tutto pervade ed assimilarne l'eternità. Comprendere l'eternità sembrerebbe qui inteso equivalente a percepire l'eternità priva di dimensioni spaziali e temporali e perdersi nell'estasi dell'illuminazione. Si è saliti in questo momento sulla cima più alta, da cui è possibile vedere tutto il mondo che ci circonda, materiale e spirituale.

YSIII:56. sattva purusayoh suddhisamye kaivalyam
Si consegue la liberazione allorché esiste una eguale purezza tra se stessi, ovvero il purusha, e il mondo circostante, ovvero il sattva.

Gli occhi di colui che ha raggiunto la perfezione attraverso la pratica guardano il mondo per la prima volta, tutto appare puro e trasparente, lui stesso ed il mondo che lo circonda sono la medesima cosa.


Il maestro Baba Sri Ananda diceva che il quarto libro dei sutra di Patanjali non può essere commentato, può solamente essere letto e interiorizzato, da ognuno a modo suo. Faremo un'eccezione ed affiancheremo un breve commento alla traduzione del quarto ed ultimo capitolo degli Yoga Sutra di Patanjali.


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