Yoga Sutra: i poteri del prana, IIa parte del III° libro [YS:26-43]

settembre 19, 2017


La seconda parte del terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali prosegue nel viaggio attraverso i poteri che si possono conseguire grazie ad una completa ed intensa pratica di tutti e otto i passi fondamentali descritti nei capitoli precedenti. Come abbiamo visto, la nostra linea di traduzione mira in primo luogo ad essere coerente attraverso tutti i sutra dei quattro libri che compongono l'opera, obiettivo già di per sé non scontato. In secondo luogo intendiamo lo yoga oggetto della trattazione di Patanjali come un'attività prettamente esperenziale, legata alla pratica e non un'attività filosofica, speculativa,  teorica o religiosa.  In particolare, come più volte affermato, crediamo che gli obiettivi indicati dall'autore siano strettamente legati alla pratica e non di natura sovrannaturale. Gli obiettivi della pratica non sono superpoteri, ma doti fisiche, mentali e soprattutto spirituali. In quest'ottica l'opera ci appare una grandissima fonte di ispirazione, molto attuale, un dono  per tutti gli yogin. Infine, procederemo sempre dapprima con l'interpretazione più semplice e scontata per poi muoverci verso i significati più elaborati. Patanjali offre inizialmente una panoramica sui doni che l'ascolto dell'energia e del suo concentrarsi nei punti nodali, i famosi chakra, può portare a chi pratica yoga.

YSIII:26. pravrtty aloka nyasat suksma vyavahita viprakrsta jnanam
Incentrando la pratica sulla luce interiore si consegue la conoscenza di ciò che è sottile, celato e remoto.

Volgendo all'interno lo sguardo durante la pratica miglioreremo la capacità di ascoltarci e di percepire le energie sottili che permeano il corpo attraverso i canali delle nadi e i centri energetici dei chakra. Il prana, l'energia che tutto pervade, entra nel corpo grazie alla respirazione e viene poi portato dal basso ventre verso la sommità del capo, da alcuni canali detti nadi. Tutte le scuole di yoga tradizionali si basano sul fatto che la pratica dello yoga favorisca questa circolazione del prana o energia sottile. La coscienza della circolazione di questa energia è uno degli obiettivi dello yoga . Su questi concetti, definiti con un termine molto appropriato “anatomia sottile”, si basano da oltre tremila anni la medicina ayurvedica indiana, ma anche, seppure con le dovute differenze, la medicina tradizionale cinese ed orientale in senso lato.

YSIII:27. bhuva jnanam surye samyamat
Incentrando la pratica sull'energia maschile, surya, si migliora la comprensione dell'universo fisico.

YSIII:28. candre taravyuha jnanam
Incentrando la pratica sull'energia femminile, chandra, si migliora la comprensione del passare del tempo.

YSIII:29.dhruve tad gati jnanam
Incentrando la pratica sul passare del tempo, si comprende meglio il suo funzionamento.


Le due nadi principali ai lati di shusumna, il canale energetico centrale, sono ritenute, dallo schema ayurvedico classico, portatrici di due energie differenti ed in qualche maniera opposte. Alla destra si trova pingala, che trasporta un'energia di natura solare, maschile, attiva, calda, positiva. Incentrare la pratica sull'energia  maschile significa solitamente fare una pratica più attiva, ma anche altri aspetti più complessi che non approfondiremo in questa sede. Secondo l'autore questa pratica favorisce la comprensione del corpo, del mondo fisico e delle forze che lo pervadono. Il Sole e la Luna sono in questo caso chiaramente le due tipologie di energia sottile interiore, che fanno riferimento anche alla dualità universale indiana incentrata su Shiva (principio maschile) e Shakti (principio femminile).

La nadi di sinistra, Ida, trasporta invece un'energia di natura femminile, lunare, passiva, tiepida, caratteristica di una pratica che definiremo meno attiva e più introspettiva. Questa pratica dona secondo Patanjali la conoscenza del passare del tempo, in prima analisi durante la pratica stessa.  Questo sutra viene spesso tradotto: “concentrandosi sulla luna si ottiene la conoscenza delle stelle”. Secondo chi scrive è chiaramente una metafora, e per conoscenza delle stelle si intende lo scorrere del tempo, misurato all'epoca da calendari che si basavano sui movimenti celesti. Rimanendo alla base di questo concetto, tutti noi abbiamo sperimentato quanto sia difficile avere la percezione del tempo durante la meditazione e questo sarebbe davvero un grandissimo risultato. Anche altri commentatori dissentono con le traduzioni in cui i riferimenti astronomici sono intesi in senso letterale. Tutti gli yogin conoscono la particolarissima percezione del tempo che si ha durante la pratica. Questo è vero soprattutto all'inizio, con l'esperienza si acquista migliore consapevolezza dello scorrere del tempo e dei riferimenti da adottare per avere una misura del movimento assoluto in avanti che il tempo compie per noi esseri terreni. Letteralmente il sutra 29 dice: “Stella Polare movimenti conoscenza”, ma in coerenza con quanto detto per il sutra precedente, si ritiene la Stella Polare il punto di riferimento per il movimento delle stelle, l'astronomia antica indiana la riteneva immobile, e quindi punto nodale per la misurazione dello scorrere del tempo . L'assenza di movimento significa anche il non essere soggetti al passare del tempo, incarnare l'eternità, un gradino interpretativo superiore potrebbe spingerci in questa direzione ovvero come la pratica possa distaccarci dal tempo ordinario e metterci in contatto con il tempo assoluto, l'eternità, con le ere che si succedono. 

YSIII:30. nabhi cakra kayavyuha jnanam
Incentrando la pratica sull'energia dell'addome, si consegue la conoscenza del proprio corpo.

Tutta l'energia del prana si accumula, secondo la concezione indiana classica, nella zona tra il basso addome e la base della colonna vertebrale, qui risiede kundalini, il serpente personificazione di questa forza, che la pratica ha il compito di risvegliare. Il primo passo del suo risveglio è la presa di consapevolezza del fluire del prana all'interno di tutto il corpo. Nabhi chakra è in genere considerato sinonimo e corrispondente a Manipura chackra, il terzo chakra situato tra ombelico e stomaco. Il basso addome è inoltre il baricentro fisico del corpo, fulcro di tutti i movimenti, il suo controllo dona sicuramente equilibrio e stabilità. Avendo il preciso controllo del proprio addome si acquisisce la consapevolezza e il controllo del respiro e di tutto il corpo, nessuno yogin potrà dissentire con questa affermazione.

YSIII:31. kantha kupe ksutpipasa nivrttih
Incentrando la pratica sulla gola, si ottiene l'arresto delle sensazioni di fame e di sete.

La gola è il centro del chakra visuddhi, anche la stimolazione di questo chakra ed i suoi effetti sono ben documentati in varie tipologie di pratiche: pranayama, asana, mudra, etc. Banalmente, tutti i praticanti avranno sperimentato il drastico cambiamento dell'appetito una volta intrapresa una pratica intensa e sistematica; l'astensione dal bere durante la pratica viene  inoltre raccomandata da numerose opere tradizionali per l'influenza negativa che l'acqua avrebbe su alcune tipologie di energie corporee.  Il senso si ritene però più complessivo: i chakra controllano le risposte della mente e incentrando la pratica su taluni centri è possibile modificare le risposte del nostro corpo, anche agli stimoli più profondi e vitali, come la fame e la sete.  Il potere qui riportato è proprio il controllo della mente e del corpo attraverso una pratica mirata verso alcuni centri energetici. La pratica dello yoga ha un effetto che può essere indirizzato verso taluni centri energetici, questi aspetti saranno trattati da autori successivi a Patanjali in modo più approfondito e sistematico. Come sappiamo l'opera di Patanjali non entra nei dettagli, ma traccia le linee guida.

YSIII:32. kurma nadyam sthairyam
Incentrando la pratica sull'energia che scorre nella colonna vertebrale, lo yogin realizza l'assoluta immobilità.

L'immobilità è essenziale per portare a termine una buona meditazione e spesso la scomodità della postura, la stanchezza o altri fattori portano ad effettuare dei movimenti che  fanno regredire la condizione mentale raggiunta. Allo stesso modo è anche raccomandato da tutti i testi classici di mantenere la colonna vertebrale dritta ed allungata mentre si siede in meditazione. Questo sutra sembra in continuità con questa tradizione. Riassumendo: una buona pratica permette al prana di scorrere lungo tutti i chackra situati a vari livelli lungo la colonna vertebrale o nei suoi pressi, questa circolazione dell'energia porta il praticante a sedersi in meditazione con la schiena ben eretta, la giusta respirazione e a raggiungere la condizione di immobilità indispensabile alla meditazione stessa e al passo successivo del samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto.

YSIII:33. murdha jyotisi siddha darsanam
Incentrando la pratica sull'energia al culmine della testa, si acquista la capacità di entrare in contatto con la perfezione.

La parte terminale della testa è sede dell'ultimo chakra, sahasrara, il chakra dai mille petali. Questo chakra si attiva al momento della nascita quando l'energia vitale e lo spirito entrano nel corpo, al momento della loro dipartita e, secondo alcune tradizioni, durante l'illuminazione. Patanjali ci sta dicendo che lo scorrere dell'energia attraverso tutti i chakra, fino all'ultimo, è frutto di una pratica molto evoluta, che arriva a padroneggiare l'ultimo passo dell'ashtanga yoga ovvero il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto. Questo avviene proprio grazie al dischiudersi del chakra alla sommità del capo che permette il contatto con la perfezione dello spirito che tutto pervade. E' bene ricordare che, l'autore, per fusione con lo spirito assoluto, intende una condizione fisica, mentale e spirituale indotta dalla pratica, una pratica di qualità ottimale condotta da un praticante particolarmente abile, focalizzato e realizzato.

34. pratibhad va sarvam
 Incentrando la pratica sull'intuizione, si comprende ogni cosa.

Ammetto di amare in modo particolare questo sutra e il successivo. Il termine pratibhad è stato tradotto come "intuizione" perché è sicuramente la parola che più si avvicina, seppure questo termine offra molte sfumature.  Praibhad è l'intuizione femminile contrapposta all'intelletto maschile, è anche un nome proprio di donna traducibile come  luce, intelligenza, ingenuità, splendore, come caratteristiche femminili. Alcuni intendono il termine come il superamento stesso della contrapposizione tra intelletto e intuizione. Questa interpretazione apre strade interessanti. La pratica yoga può sviluppare molto questo aspetto di intuizione creativa, in molti modi. Anni fa, parlando con alcuni yogin indiani di grande esperienza e dedizione, mi dicevano che spesso la mattina svolgevano la loro pratica abbandonandosi completamente, iniziando a gambe incrociate e concatenano ogni movimento al successivo ed ogni fase della pratica alla successiva secondo l'ispirazione inconscia del momento, in questo modo a volte giungevano ad uno stadio finale di meditazione particolarmente profondo ed ispirato. Mi piace pensare che Patanjali si riferisca a questo tipo di ispirazione, quella che riempe il cuore e illumina la pratica personale. Una pratica di questo tipo può gettare una nuova luce sulle nostre modalità di rapportarci allo yoga ma forse anche al mondo, dove la logica non è contrapposta alla preghiera, la scienza non è contrapposta alla poesia, dove mistica e razionalità, materialità e spiritualità si incontrano. Stiamo divagando. Più semplicemente potremmo dire che saper leggere le proprie intuizioni non è affatto semplice, ma la pratica può aiutare e le giuste intuizioni corrisponderanno poi a verità. Alcuni si fideranno ciecamente di esse, altri meno, altri riusciranno a superare il dualismo tra analisi compiuta dall'intelletto ed intuizione.

35. hrdaye citta-samvit
Incentrando la pratica sul cuore, si ottiene la consapevolezza della natura della mente.

Il cuore corrisponde per Patanjali al chakra Anahata, situato al centro del petto, che potremmo definire il cuore spirituale, associato con il bilanciamento della personalità, la calma e la serenità, l'amore e la compassione verso gli altri. Ci sono molti tipi di pratica che possono stimolare questo plesso energetico, esercizi di respirazione, asana e meditazione, ma anche comportamenti sociali e verso noi stessi. Questo tipo di pratica fa comprendere esattamente cosa sia la mente. Per il termine mente (citta) qui l'autore usa esattamente lo stesso utilizzato nel primo sutra quando ci diceva che lo scopo dello yoga è arrestare le oscillazioni della mente. Quando si è in equilibrio e pervasi dall'amore si comprende che l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri è sbagliata, che la mente non è altro che un organo di senso come il naso o la lingua, l'organo di senso che permette di pensare, ma oltre i pensieri c'è molto altro.
In una tradizione diversa da quella induista ma con origini comuni, nella tradizione buddista, questo superamento del pensiero razionale è spesso rappresentato come una meditazione su concetti contraddittori: in molte storie, alla fine del percorso il maestro dice ad esempio al discepolo “vai e medita sul suono di un applauso con una mano sola, poi tra un anno torna e dimmi cosa hai capito”. Questo è il concetto di trascendere l'intelletto ed affidarsi allo spirito o all'intuizione. Non casualmente il termine Anahat (il nome del chakra del cuore) significa anche tintinnio prodotto tra due oggetti metallici, ma a volte è utilizzato per indicare il mistico suono senza suono chiamato anche Ahum. Quando tutti i suoni scompaiono sorge la vera natura dello spirito. Ci stiamo però spingendo molto oltre, riassumendo l'autore, in tre parole, dice: “hrdaye (cuore) citta (mente) samvit (capire, consapevolezza)“,  ovvero abbandonandosi al cuore, nella pratica ma non solo, si pone nella giusta prospettiva la mente ed i pensieri. A ognuno la sua interpretazione finale. Credo che questo sutra parli con chiarezza anche ad un occidentale dei nostri giorni.

YSIII:36 sattva purusayoh atyanta samkirnayoh pratyayaviseso  bhogah para artha va sva arthasamyamat purussa jnanam
L'esperienza consiste in percezioni nelle quali non si riesce a differenziare la coscienza e il mondo sensoriale,  sebbene essi siano perfettamente distinti tra loro. Incentrando la pratica con perfetta disciplina sulla coscienza, si comprende la sua vera natura.

YSIII:37 tatah pratibha sravana vedana adarsa asvada varta jayante
In questo modo anche udito, tatto, vista, gusto e olfatto possono aiutare la capacità d'intuizione.

YSIII:38 te samadhav upasargah vyutthane siddhayah
I sensi sono utili allorché la mente è rivolta verso l'esterno, ma sono ostacoli sul cammino del samadhi, il ricongiungimento tra spirito individuale e spirito assoluto.

Questo sutra sembra in prima analisi molto speculativo e filosofico, semplicemente perché fa riferimento in modo stretto a tutto l'universo già descritto nei capitoli precedenti. Patanjali ha detto chiaramente che per raggiungere gli ultimi stadi dello yoga e quindi arrivare alla contemplazione dello spirito assoluto, al samadhi, bisogna distaccarsi dalle cose materiali, distaccarsi dai sentimenti e in ultima analisi dai sensi. Il ritiro dai sensi è infatti un passo fondamentale dell'ashtanga yoga. Grazie alla pratica possiamo diventare consapevoli di quali input siano originati dal mondo materiale esterno e quali dal nostro mondo interiore, dal mondo spirituale e dalle energie sottili. Questo è uno dei poteri raggiungibili attraverso lo yoga. Patanjali chiarisce poi un aspetto importante del suo pensiero che fino a questo momento non era forse emerso: ritiro dei sensi non significa in prima istanza cessazione dei sensi o completo assopimento degli organi preposti, ma rivolgere questi verso l'interno in modo che anche i sensi partecipino all'intuizione dello spirito. Questo processo lo sperimentiamo spesso ad esempio con il senso di calore che si percepisce provenire dal basso ventre, con il formicolare della pelle, con l'udire suoni o con il presentarsi di immagini,  o molte altre sensazioni interiori che  possono intervenire durante la nostra pratica e riguardo le quali la letteratura classica è particolarmente ricca.
Come è stato però precedentemente detto con chiarezza, il ritiro dei sensi deve essere superato con la meditazione e con la successiva fusione dello spirito.

YSIII:39 badnha karana saithilyat pracara-samvedanacca cittasya parasariravesah
Abbandonando le cause  dell'attaccamento agli aspetti materiali e incanalando correttamente l'energia, prana, è possibile scoprire un nuovo corpo.

Il ritiro dei sensi e la cessazione della schiavitù all'attaccamento verso il piacere e verso le momentanee soddisfazioni dei desideri, già analizzati nel secondo libro, ci permettono di scoprire un nuovo modo di sentire il nostro corpo, percependo una nuova corporeità. Questo è un dono prezioso e un concetto fondamentale: superando l'attaccamento e abbandonando l'uso tradizionale dei sensi, non si svilisce il corpo, ma se ne scopre una nuova funzionalità. Il corpo non è un'inutile o nociva appendice, ma il tempio dell'anima, il veicolo del prana e lo strumento che ci fa percepire lo spirito. Lo yoga di Patanjali conduce all'unione tra corpo, mente e spirito, non è lo svilimento del corpo e della mente per esaltare lo spirito. Per giungere a questa perfetta unione, certo, corpo e mente, con tutti gli aspetti che li riguardano, vanno ricondotti al giusto indirizzo.
Per dovere di cronaca segnaliamo che la traduzione più comune di questo sutra è: ”Cessando l'attaccamento al regno fisico e divenendo sensibili alle correnti praniche, è possibile entrare nel corpo di un'altra persona”. Tralasciamo la traduzione parola per parola a supporto della nostra interpretazione, diremo che qualunque sia l'interpretazione del concetto di “entrare nel corpo di un'altro”: sia come vera e propria possessione, sia come comunicazione a distanza, sia come pervasione da parte dello spirito del maestro nel corpo dell'allievo, eccetera (risparmieremo al lettore anche le varie declinazioni e sfumature del concetto), questa traduzione è lontana da quello che abbiamo capito fino a questo punto dell'opera di  Patanjali e lontana dal senso dei sutra immediatamente precedenti. Comunque la si ponga, la possessione ci sembra un'arte più da fachiri che non da yogin, intendendo il termine “fachiri” con l'accezione negativa data strumentalmente dai colonizzatori inglesi ad un certo tipo di sadhu o baba che loro dipingevano come dediti ad arti oscure. Non sappiamo se questa linea di pensiero abbia potuto influenzare le successive traduzioni in inglese, ma il discorso è troppo lungo e complesso per essere affrontato in questa sede.

YSIII:40 udana jayaat jala pankha kantakadisv asango 'tkrantisca
Padroneggiando il soffio vitale, o udana, il praticante è in grado di elevare il corpo sopra il fango, l'acqua stagnante o le spine e risollevarsi.

41. samana-jayaj-jvalanam
Padroneggiando il soffio del plesso solare, o samana, il praticante diviene raggiante.

Il discorso di questi ultimi sutra sembra estremamente lineare e coerente. L'autore sta spiegando quali doni o poteri può conseguire il nostro corpo, la nostra mente e il nostro spirito, quando si padroneggi veramente a fondo la pratica, tanto da dominare i vari tipi di prana e i cinque soffi vitali che pervadono il corpo.
Udana vayu fluisce dalla base della gola alla sommità del capo, fluisce in tutte le direzioni e pervade il corpo intero trasportando il prana in ogni cellula, con il suo controllo il corpo  secondo Patanjali nasce a nuova vita, una vita spirituale ed elevata, sopra le miserie materiali e morali, risorge a nuova bellezza. Molti traduttori intendono il sutra 40 come “padroneggiando samana si conquista il potere della levitazione”.  Non aggiungiamo altro.
Samana vayu è invece un tipo di soffio vitale che oscilla nello spazio tra l’ombelico e il diaframma, la cui sede a volte è fatta coincidere con il terzo chakra, Manipura. Avendo risollevato a nuova vita il nostro corpo attraverso il controllo e la gestione dell'energia vitale udana, successivamente, grazie al controllo di samana, il nostro corpo diviene radioso, raggiante, emana forza e bellezza. Tutti noi abbiamo presente il viso sorridente di un maestro dopo una lunga pratica, lo stupendo volto rilassato di un monaco tibetano dopo la meditazione, secondo noi Patanjali si riferisce a questo concetto, la pace interiore e la gioia spirituale divengono percepibili anche dall'esterno per chi sa padroneggiare il plesso solare e la relativa circolazione del respiro e quindi dell'energia.

YSIII:42 srotra akasayoh sambandha samyamat divyam srotram
Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra l'udito e l'etere, si acquisisce un udito straordinario.

Da un punto di vista fisico, un suono è ascoltabile perché produce delle oscillazioni nell'etere che tutto circonda. Nel vuoto nessun suono si propaga. Traslando questo concetto, che serve a noi per capire, ma che Patanjali con tutta probabilità ignorava, da un punto di vista interiore, capendo come i suoni si propaghino al nostro interno si acquisisce il potere di ascoltare l'energia che tutto pervade. E' un concetto che in prima analisi sembra molto astratto, ma nell'immaginario dell'autore non lo è.  Già riguardo il sutra 37 avevamo avuto modo di esporre cosa si intenda per suono senza suono e udito mistico. Semplificando diciamo che attraverso i più alti livelli della pratica è possibile udire il mistico suono senza suono ovvero la contemplazione dell'assoluto, dell'Ahum, quel tipo sommo di meditazione dove anche tutti i sensi sono colmi della gioia dello spirito e si contemplano immagini che non sono immagini ma il nostro stesso spirito, così come si ascoltano suoni che non sono suoni. Questo è l'udito straordinario. Alcuni maestri indiani riferiscono di poter ascoltare il rumore prodotto dal circolare del prana all'interno del proprio corpo. Essendo il prana strettamente legato al respiro, questo non ci sorprende più di tanto, seppure, indagando maggiormente l'argomento, si capisce che non parlano esattamente del rumore del respiro, ma proprio di ciò che il respiro veicola.

YSIII:43 kayakasayoh sambandha samyamat laghu tula samapattesca akasa gamanam
Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra il corpo e l'etere, e incentrando la pratica sulla leggerezza, lo yogin è in grado di muoversi senza peso.

Grazie alla pratica si sperimenta la relazione tra il corpo e lo spazio, questo probabilmente è vero ad un livello più scontato ed elementare nelle asana e meno evidente e più complesso anche durante le fasi successive della pratica, dal pranayama alla meditazione eccetera.
Una pratica avanzata permette quindi di padroneggiare perfettamente i movimenti del corpo nello spazio e la percezione del mondo che ci circonda. La leggerezza e l'elevazione del corpo e dello spirito, sono i doni che ne conseguono. Il concetto sembra piuttosto chiaro.
Alcuni interpretano questo sutra come la capacità di ottenere il potere di volare e muoversi attraverso lo spazio, coerentemente con la propria traduzione del sutra 40 dove si raggiungeva la levitazione. Seppure si discorda in questa sede con alcune linee interpretative, chi scrive, è inutile dirlo, ha il massimo rispetto per gli illustrissimi autori che hanno a volte dedicato a Patanjali parte della propria vita. I testi, ma anche le traduzioni e le interpretazioni degli stessi, sono sempre frutto del contesto storico-culturale nel quale vengono prodotti e al quale, per averne un'esatta comprensione, bisognerebbe ricondurli.

Negli ultimi sutra del terzo libro, come vedremo presto, si compieranno tutti i doni provenienti dalla pratica illuminata dell'ashtanga yoga di Patanjali, per arrivare poi al quarto libro il cui tema sarà Kaivalya, la liberazione.


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